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venerdì 29 maggio 2020

Preludio di un mondo ricomposto


Pentecoste (A)
Atti 2,1-11 • Salmo 103 • 1 Corinzi 12,3b-7.12-13 • Giovanni 20,19-23
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(Vedi anche i brani delle Letture della Messa vespertina della vigilia)


Appunti per l'omelia

Solitamente pensiamo alla Pentecoste secondo le immagini con cui ce la presenta Luca negli Atti (cfr. At 2,1-11; I lettura): il vento, le lingue di fuoco, il parlare linguaggi diversi...
La liturgia, oggi, mette in relazione quel fatto con il brano del Vangelo di Giovanni che viene sovente indicato come la "Pentecoste di Giovanni".
Era la sera del giorno della risurrezione: «La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il Sabato» (cfr. Gv 20,19). Il dono dello Spirito Santo è collegato direttamente con la Pasqua, con la morte e risurrezione di Gesù. Non si può capire la Pentecoste senza la Pasqua, ne è il compimento, e non soltanto in senso cronologico.
La cosa risulta ancora più evidente con il gesto che Gesù compie sugli Apostoli: «Detto questo,soffiò e disse loro: "Ricevete lo Spirito Santo"» (Gv 20,22). Il verbo "soffiare", "alitare", "spirare", si ricollega a quanto avvenuto sulla croce al momento della morte di Gesù. Giovanni scrive che Gesù «chinato il capo, consegnò lo spirito» (Gv 19,30). Non è soltanto un modo per descrivere la morte di Gesù; il verbo utilizzato indica un "dono": Gesù donò lo spirito. Proprio da Gesù, nel momento della sua Pasqua, del suo passaggio al Padre, viene il dono dello Spirito, come Gesù stesso aveva promesso: «È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paraclito» (Gv 16,7).

È significativo che il primo saluto di Gesù risorto, il primo augurio ai suoi discepoli sia: «Pace a voi!». Lo Spirito Santo avrebbe condotto i discepoli a ri-comprendere, alla luce della sua morte e risurrezione, tutto il senso della storia e dell'opera di Gesù. Se la violenza umana si era abbattuta su Gesù, l'opera del Padre dava anche a questo apparente fallimento un significato e un valore inaspettato: «Egli doveva morire per riunire i figli di Dio che erano dispersi» (cfr. Gv 11,52). Una lettura che solo il dono dello Spirito di verità avrebbe potuto far compiere: la "pace" è il riflesso di questa azione dello Spirito Santo nella nostra vita.
Credere che ogni sconfitta, ogni insuccesso, ogni sofferenza trova una sua logica, una sua svolta di significato è il "segreto" che tutti vorremo portarci in cuore: non ci si può rassegnare al male, non lo si può credere ineluttabile. Abbiamo bisogno tutti di credere che esiste una "forza" più grande del male che ci circonda e che ci interpella a volte drammaticamente.
Non per nulla Giovanni mette in evidenza la svolta che si è operata nel cuore dei discepoli: «Erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei» (Gv 20,19). È qualcosa che può incidere così in profondità da far esclamare a Paolo: «Tutto concorre al bene per quelli che amano Dio» (Rm 8,8), di coloro cioè che guardano a questo Dio come a colui che, per primo, non si rassegna al male, ma lo vuole superare fino al punto di farlo suo e ribaltarlo con l'amore: «Nessuno ha un amore più grande di colui che dona la sua vita per quelli che ama» (cfr. Gv 15,13).
Per questo Luca mette in evidenza l'uscire dei discepoli dal Cenacolo per dire ad alta voce a tutti: «Sappia con certezza tutta la casa d'Israele che il Padre ha reso Signore e Messia quel Gesù che voi avete crocifisso ... e di questo noi siamo testimoni» (cfr. At 2,36; 32).
Un coraggio nuovo di cui autore è lo Spirito: «Ricevete lo Spirito Santo ... Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (Gv 20,21). La missione ha il compito di ricomporre ciò il peccato ha slegato e slega: «a coloro a cui perdonerete i peccati saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati» (Gv 20,23). Non è soltanto il potere di rimettere i peccati nella Confessione, anche se il fondamento sta qui. La Confessione stessa andrebbe vissuta come un momento vitale che ci riallaccia all'opera di Gesù di ricomporre in unità ciò che è separato e contrapposto: il rapporto tra l'uomo e il Padre, il rapporto tra uomo e uomo.

La Pentecoste, allora, è il preludio di un mondo ricomposto nella luce dell'amore che non si lascia abbattere da nessun ostacolo: l'intendersi tra linguaggi diversi, come sottolinea Luca nel suo racconto della Pentecoste, ne è il segno. Le parole che abbiamo ascoltato nella domenica dell'Ascensione «Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo...» (Mt 28,19) non risuonano più come un linguaggio di conquista, ma la possibilità aperta ad un'umanità che ritrova la sorgente del proprio unirsi, che è la vita stessa di Dio.

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Ricevete lo Spirito Santo (Gv 20,22)
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Vedi anche analoga Parola-sintesi a suo tempo pubblicata
Ricevete lo Spirito Santo (Gv 20,22) - (04/06/2017)
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Ricevete lo Spirito Santo (Gv 20,22) - (08/06/2014)
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Ricevete lo Spirito Santo (Gv 20,22) - (12/06/2011)
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Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  Lo Spirito Santo, il respiro di Dio (02/06/2017)
  Molti un sol corpo (06/06/2014)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 5.2020)
  di Cettina Militello (VP 4.2017)
  di Gianni Cavagnoli (VP 5.2014)
  di Marinella Perroni (VP 5.2011)
  di Enzo Bianchi
  di Lectio divina: Abbazia Santa Maria di Pulsano

(Illustrazione di Bernadette Lopez)

venerdì 22 maggio 2020

«Io sono con voi fino alla fine del mondo»
 La fine del mondo: quale?


Ascensione del Signore (A)
Atti 1,1-11 • Salmo 46 • Efesini 1,17-23 • Matteo 28,16-20
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Appunti per l'omelia

Guardare a Gesù che ascende al cielo non significa soltanto pensare alla conclusione, più o meno immaginifica, più o meno mitica, della sua storia terrena.
C'è un significato profondo legato a questo distacco di Gesù dai suoi e dalla storia umana, che Gesù stesso aveva preannunciato la sera della cena con i suoi apostoli: «È bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito» (Gv 16,7).
E, secondo le parole stesse di Gesù, il compito di questo Paràclito, dello Spirito della verità sarebbe stato quello di guidare i discepoli alla scoperta della "verità tutta intera": «Quando egli verrà, vi guidare alla verità tutta intera. Egli non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future» (Gv 16,13).
E la verità di Gesù è che esiste un legame profondo tra lui e il Padre, dentro il quale siamo innestati anche noi: «In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi» (Gv 14, 20). È alla luce di queste promesse di Gesù che possiamo comprendere la profondità della missione che affida agli Apostoli: «Andate e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28,19-20).
Il Battesimo non è soltanto un segno che indica l'appartenenza ad una chiesa, tanto meno è un rito quasi magico che libera da un male nascosto nel cuore dell'uomo: se proprio si vuole parlare di appartenenza, si appartiene ad un Dio che è comunione di persone nell'amore, nel senso che si è come innestati nella realtà vitale che è propria di Dio stesso.
Dire infatti "nel nome di ..." significa che la realtà stessa di quella persona viene riverberata nella vita di colui su cui è pronunciato quel nome, significa essere immersi nell'esistenza di ciò che il nome richiama: è la vita stessa di Dio che entra a far parte della storia umana o, meglio ancora, è la storia umana che riceve il suo senso pieno dall'amore del Dio-Trinità. Non per nulla Gesù ci invita a pregare: «si compia la tua volontà, come in cielo così in terra» (cf. Mt 6,10).
Sempre durante la cena, Gesù aveva pregato: «Io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (Gv 17,26).
Non è certo automatico questo passaggio dalla vita di Dio alla vita umana, anzi a volte sembra pura utopia o un pretesto di consolazione per un futuro oltre la vita terrena. Per questo Gesù aggiunge: «insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato».
Questo richiamo a vivere la sua parola, ad accoglierla, a farla propria è costante in Gesù: senza la sua parola non è possibile entrare nella realtà profonda di Dio: «Le parole che hai dato a me io le ho date a loro. Essi le hanno accolte e sanno veramente che sono uscito da te e hanno creduto che tu mi hai mandato» (Gv 17,8). «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,10).
La comprensione della parola di Gesù è qualcosa che avviene a partire dal cuore stesso della persona: «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14,21).
Proprio perché non è frutto prima di tutto di una conoscenza teorica, è un dono aperto a tutti: «Andate e fate discepoli tutti i popoli...». Non c'è persona, non c'è popolo che non sia candidato all'incontro con Dio: ciò che il peccato originale aveva rotto, l'armonia tra uomo e uomo, viene ricomposta dal dono dello Spirito che porta a scoprire in ogni persona un volto che ha gli stessi tratti fondamentali dell'altro. Anzi, c'è qualcosa di più ancora: quando, anche inconsapevolmente, si mette in atto ciò che il Vangelo dice, si attua già un'unità che va al di là anche delle stesse frontiere religiose. «Fai all'altro ciò che vorresti fosse fatto a te. Non fare agli altri ciò che non verresti fosse fatto a te» è una regola di vita che si ritrova in ogni grande religione. A questa regola il comandamento nuovo di Gesù «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12) dà una evidenza ed una misura tutta nuova.

Tocca a noi credenti metterne in risalto la possibilità di attuazione, con la certezza che il cammino della storia umana è accompagnata dalla sua presenza: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20).
E chissà che questa "fine" non possa essere letta non tanto in senso cronologico, ma di augurio: «fino a che l'umanità non abbia completato il suo cammino».

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Io sono con voi tutti i giorni (Mt 28,20)
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Vedi anche analoga Parola-sintesi a suo tempo pubblicata
Io sono con voi tutti i giorni (Mt 28,20) - (28/05/2017)
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Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli (M 28,19) - (01/06/2014)
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Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli (Mt 28,19) - (05/06/2011)
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Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  Ascensione, la festa del nostro destino (26/05/2017)
  Fare di ogni persona un discepolo (30/05/2014)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 5.2020)
  di Cettina Militello (VP 4.2017)
  di Gianni Cavagnoli (VP 4.2014)
  di Marinella Perroni (VP 5.2011)
  di Enzo Bianchi
  di Lectio divina: Abbazia Santa Maria di Pulsano
(Illustrazione di Bernadette Lopez)

mercoledì 20 maggio 2020

Il Diaconato in Italia - Indice 2020



Il Diaconato in Italia
Periodico bimestrale di animazione per le chiese locali

Indice 2020 (anno 52°)







Titolo dell'annata:
QUALE DIACONIA: RIFORMA O CONVERSIONE DEL MINISTERO ORDINATO


Temi monografici:

n° 220 – gennaio/febbraio 2020
Conversione: diaconi ordinati per servire la Parola

n° 221 – marzo/aprile 2020
Percorsi diaconali per una conversione pastorale

n° 222 – maggio/giugno 2020
Nuove sfide per la conversione politica e sociale: il ministero diaconale

n° 223 – luglio/agosto 2020
Per una spiritualità di ascolto e missionaria: i diaconi con e per i poveri delle periferie

n° 224/225 – settembre/dicembre 2020
Quale diaconia: riforma o conversione del ministero ordinato

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lunedì 18 maggio 2020

Dalla pastorale del "campanile" a quella del "campanello"


Lettera aperta alla parrocchia
di monsignor Gualtiero Sigismondi, vescovo di Orvieto-Todi (Vita Pastorale, maggio 2020)


Parrocchia carissima, traendo spunto da don Primo Mazzolari, che nella prima metà del Novecento ha avuto la felice intuizione di scrivere una "Lettera" su di te, ti invio queste righe, che giro per conoscenza a quanti, opportune et importune, parlano della tua missione pastorale.
- C'è chi ne parla con profonda gratitudine, convinto della tua dimensione popolare di vicinanza alle case della gente, di porta d'accesso alla fede cristiana e all'esperienza ecclesiale, ma non del tutto consapevole della tua vocazione missionaria.
- C'è, pure, chi ne parla senza uscire dalla sacrestia o senza allontanarsi dall'ombra del campanile, ignorando la tua dipendenza strutturale dalla Chiesa particolare, a cui è intimamente legata la tua appartenenza vitale alla Chiesa universale.
- C'è, persino, chi ne parla per conferirti la medaglia d'oro al "valore pastorale", nella consapevolezza che hai "combattuto la buona battaglia" della salus animarum e hai portato a termine la tua lunga "corsa", conservando la fede della Chiesa.
- C'è, addirittura, chi ne parla con diffidenza, ritenendoti, se non proprio un "rottame pastorale", un "pezzo d'antiquariato" o, comunque, un "oggetto da museo", indicato da questa laconica didascalia: "fontana del villaggio ormai sigillata".
- C'è, anche, chi ne parla con troppa sicurezza, smaniando di versare "vino nuovo in otri vecchi", anziché "vino nuovo in otri nuovi" (cf Lc 5,37-39), magari con il lodevole proposito di rinnovarti, ma con il risultato di incrinarti e di spaccarti.
- C'è, infine, chi ne parla con entusiasmo sincero, volendo seguire l'esempio dello scriba di evangelica memoria il quale, divenuto "discepolo del Regno", «è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52).
Come vedi, carissima parrocchia, sono in molti a tenere fisso lo sguardo su di te, forse con la nostalgia della simpatia, ma non sempre con la lungimiranza della profezia, che unisce alla pazienza dell'attesa l'intelligenza dei "segni dei tempi".
Non temere né l'intraprendenza di chi ti ritiene inadeguata, né la reticenza di chi ti considera sorpassata e neppure la sufficienza di chi stenta a riconoscere la tua esperienza di lungo corso. Non sostare nel vicolo cieco della "febbre degli eventi" o del "male della pietra" e non accontentarti di moltiplicare "iniziative prive di iniziativa", che potrebbero dare l'impressione che tu sia un'azienda pastorale.

Non limitarti a presidiare i confini del tuo territorio, ma abbi l'audacia di presiederlo, riscoprendo la "grammatica di base" del "primo annuncio". Ricordati che non è il territorio ad appartenere alla parrocchia, ma il contrario, nel duplice senso di fame parte e di prenderne le parti. Renditi conto che l'attenzione alla vita sociale non è separabile dall'impegno ecclesiale. Mi raccomando, prenditi cura dei poveri, "amici abituali della canonica", e di coloro che si sono allontanati da te per "delusione d'innamorati".
Parrocchia carissima, non dimenticare che la Parola convoca la comunità cristiana e l'eucaristia la fa essere un solo corpo. Tieni bene a mente che "la fede nasce dall'ascolto e si rafforza nell'annuncio". Esplora la "frontiera" della missione coltivando e dilatando gli strumenti e gli spazi della comunione, poiché "la concordia è il presupposto della Pentecoste".
Valorizza gli organismi di partecipazione, ispirandoti non alla logica parlamentare della maggioranza bensì al criterio sinodale della convergenza. Riconosci la necessità e l'importanza delle unità o comunità pastorali, che non sono sovrastrutture amministrative, ma infrastrutture che contribuiscono a tradurre l'ecclesiologia di comunione del Vaticano II.
Non guardare con alterigia alla pietà popolare, autentico "sistema immunitario del corpo ecclesiale" , ma purificala da eventuali eccessi e rinnovala nei contenuti e nelle forme.
Affida all'oratorio il compito di rivelare il volto e la passione educativa della Chiesa per le nuove generazioni, coinvolgendo animatori, catechisti e genitori. Investi le migliori energie sulla famiglia, vera "miniatura" della Chiesa, altrimenti il tuo impegno pastorale sarà sempre una rincorsa affannosa.
Scommetti sull'Azione cattolica, riconoscendo il suo "carisma popolare" e la sua "passione formativa", senza trascurare di accogliere il "genio missionario" delle nuove aggregazioni ecclesiali e degli istituti di vita consacrata, antichi e recenti, che assicurano un prezioso supporto di energie evangelizzatrici: guardati dalla tentazione di "spegnere lo Spirito"! (cf 1Ts 5,19).
Non rinunciare al suono delle campane, ma abbi il coraggio di passare dalla pastorale del "campanile" a quella del "campanello" - anche il tuo nome evoca l'idea di "vicinanza" (parà) riferita alla "casa" (oikìa) -, dalla pastorale "a pioggia" di mantenimento a quella "a goccia" di accompagnamento.
Parrocchia carissima, sei tanto venerabile quanto veneranda, e tuttavia tieni presente che "la bellezza di ogni creatura è nella sua capacità di rinnovarsi".

venerdì 15 maggio 2020

Entrare in "relazione" d'amore


6a domenica di Pasqua (A)
Atti 6,1-7 • Salmo 32 • 1 Pietro 2,4-9 • Giovanni 14,1-12
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Appunti per l'omelia

C'è un verbo un po' singolare che ci accompagna da alcune Domeniche, singolare per tutto il suo significato biblico: il verbo "conoscere", che implica non tanto una conoscenza di tipo teorico, intellettuale, ma tutta una comunanza di vita, una relazione che porta come ad una immedesimazione tra le persone che si conoscono.
Gesù l'ha utilizzato per esprimere il rapporto vitale che ci lega a lui, che ci unisce al Padre, ed ora lo impiega per introdurci al rapporto con lo Spirito: «il Paràclito, lo Spirito di verità... Voi lo conoscete, perché egli rimane presso di voi e sarà in voi» (Gv 14,16-17).
Come non fosse sufficiente l'intimità di vita, già evidenziata dal verbo stesso, Gesù la rimarca: «rimane presso di voi e sarà in voi».
Qual è il compito dello Spirito Santo?
È anzitutto quello di introdurci a capire il mistero stesso della vita di Dio: «In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre» (Gv 14,20). Sono parole che riprendono quelle che abbiamo già ascoltato domenica scorsa: «Credete a me: io sono nel Padre e il Padre è in me» (Gv 14,11). Dio, secondo la logica di Gesù, non è un Dio solitario, a cui si obbedisce per timore o da cui si sta lontani perché non si sa bene chi è: è anzitutto un rapporto d'amore. Entrare in Dio significa entrare all'interno di questo rapporto d'amore: «voi saprete che io sono nel Padre e voi in me e io in voi» (Gv 14,20).
Chi ci può introdurre in questo legame d'amore, se non colui che è l'Amore stesso? Lo Spirito Santo è esattamente questo: quando il Padre vuole comunicarci la sua realtà di vita, dopo avercela fatta scoprire in Gesù, non può che donarci l'Amore che lo lega al Figlio: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre» (Gv 14,16).
Il Padre non ci dà prima di tutto dei comandi, ma ci comunica ciò che Lui stesso è: tutto il resto è via, strumento per farci entrare in questa realtà o, meglio ancora, per renderla esplicita nella nostra storia, per portarci ad assaporare qualcosa che può essere compreso solo vivendolo. Per questo, Gesù, nell'invitarci ad osservare i suoi comandamenti, ne fa un'espressione d'amore: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15), «Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama» (Gv 14,21).
Non è soltanto secondo una logica umana che Gesù ci dice questo: è naturale che, quando voglio bene ad una persona, faccio quello che le è gradito, che le fa piacere. Qui c'è qualcosa di più profondo: siamo portati a scoprire che il rapporto che ci lega a Dio è un rapporto motivato dall'amore e non dalla paura. Giovanni scriverà in una delle sue lettere: «L'amore scaccia il timore» (cfr. 1Gv 4,18). Ma l'origine stessa di questa motivazione non è il cuore dell'uomo, ma è il "cuore" di Dio: è perché Dio è rapporto d'amore che ciò che ci porta e ci lega a lui può essere l'amore stesso: «Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1Gv 4,8), scriverà ancora Giovanni.
E Gesù afferma: «Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch'io lo amerò e mi manifesterò a lui» (Gv 14,21).
Non è una sorta di ricompensa che ci viene donata perché siamo stati buoni, è la logica interna delle cose: anche sul piano umano succede che io conosco tanto più l'altro o l'altra quando lo amo o la amo sul serio, senza partite di tornaconto. L'amore non è mancanza di razionalità, quando attinge alla sua profondità.
Non sarà forse perché l'amore tante poche volte sa attingere alla sua profondità che ci sentiamo distanti da Dio e fra di noi?
Ecco, allora, il dono dello Spirito Santo: Gesù dirà ancora di lui, nel corso del discorso che stiamo leggendo in queste Domeniche: «Quando verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera» (Gv 16,13).
E la verità non è altro che la parola di Gesù, di cui siamo chiamati a cogliere tutta la profondità e tutte le implicanze vitali: «Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore» (Gv 15,10). Lo Spirito Santo ci porta a scoprire che tutto il Vangelo non è altro che frutto ed espressione di amore: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi» (Gv 15,9).
Ed è per questo che egli è anche il Paràclito (Colui che è chiamato accanto e ci assiste), perché solo da lui si origina la luce per farci scoprire che l'amore non è pura utopia, ma è realizzabile fino alla misura in cui ce lo indica Gesù con la sua parola e la sua vita: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,12-13).
«Lo Spirito Santo, dice Papa Francesco, è l'Amore di Dio che fa del nostro cuore la sua dimora ed entra in comunione con noi. Lo Spirito Santo sta sempre con noi, è sempre in noi: è nel nostro cuore. Lo Spirito stesso è il "dono di Dio" per eccellenza, è un regalo di Dio» (Catechesi, 09/04/2014).

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paraclito (Gv 14,16)
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Vedi anche analoga Parola-sintesi a suo tempo pubblicata
Se mi amate, osserverete i miei comandamenti (Gv 14,15) - (21/05/2017)
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Chi ama me, sarà amato dal Padre mio (Gv 14,21) - (25/05/2014)
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Chi ama me, sarà amato dal Padre mio (Gv 14,21) - (29/05/2011)
(vai al testo)

Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  Il sogno di Gesù: abitare la mia vita (19/05/2017)
  La consolante promessa di Gesù (23/05/2014)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 5.2020)
  di Cettina Militello (VP 4.2017)
  di Gianni Cavagnoli (VP 4.2014)
  di Marinella Perroni (VP 4.2011)
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giovedì 14 maggio 2020

Il tempo dell'assenza di Cristo


Ritrovare nella nuda fede il primo principio della nostra salvezza e della comunione nella Chiesa
di Severino Dianich, teologo e parroco (Vita Pastorale, maggio 2020)


A Maria, sua madre, da quel che narrano i Vangeli, Gesù risorto non avrebbe detto nulla. Mi piace pensare sia accaduto perché Maria, sua madre, aveva già capito tutto. All'altra Maria, invece, quella di Magdala, ha detto, perentoriamente: «Non mi trattenere!». Egli non intendeva restare perennemente qui, come non accade ad alcun uomo vivente su questa terra: «Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Questo era il destino del Risorto. Egli dirà ai discepoli: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo», ma essi dovevano anche capire che non lo avrebbero più visto in mezzo a loro, non avrebbero più potuto toccarlo né ascoltare la sua voce.
L'ultima sera che erano stati con lui, per la cena di Pasqua, egli aveva ripetuto più volte che per lui era il momento di andarsene. Ed essi neppure gli avevano chiesto dove stesse andando, perché temevano di sentirsi dire: «Ora io vado da colui che mi ha mandato». Dovevano capire, però, che anche nella sua assenza avrebbero trovato una grazia: «Io vi dico la verità: è bene per voi che io me ne vada, perché, se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi» (Gv 16,5-7).
La nostra spiritualità è molto legata al senso della sua presenza, che percepiamo ogni volta che ci riuniamo nel suo nome, quando si celebrano i sacramenti e soprattutto nell'eucaristia. Ogni domenica a messa ci sentiamo suoi commensali, ascoltiamo la sua Parola e, come i discepoli quella sera, ci nutriamo di quel pane spezzato per amore, che è il suo corpo, e diventiamo membra gli uni degli altri sotto di lui nostro capo.
Questi sentimenti ci accompagnano, quindi, lungo i giorni e nei momenti della sofferenza ci sostengono. Ora, una situazione, del tutto imprevedibile, ci sta privando di questa percezione fisica della sua presenza nell'incontro di fede con i fratelli. Scopriamo, allora, che ci sono momenti della vita, e sono questi, nei quali bisogna ritornare a meditare il mistero della sua assenza, quella che egli volle che la Maddalena piangente accettasse con fede: «Non mi trattenere!». Ciò che rimane è un'altra sua presenza, e le nostre comunità in questi giorni, ovviamente, non se ne stanno affatto dimenticando, immancabile e particolarmente imperativa nei momenti difficili, quella nei poveri: «I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me».

Della grazia nascosta nell'assenza di Cristo san Paolo aveva un'idea precisa: «Se anche abbiamo conosciuto Cristo alla maniera umana, ora non lo conosciamo più così» (2Cor 5,16). Il testo greco suggerisce anche un'altra versione: all'espressione "alla maniera umana" corrisponde infatti un katà sarka, "secondo la carne", cioè una qualche forma di percezione fisica della sua presenza. Allora, l'apostolo vuol dire che ora, invece, conosciamo Cristo katà Pneũma, cioè in un'esperienza diversa, tutta interiore al nostro spirito e più reale e profonda, animata dallo Spirito santo, così come Gesù aveva predetto per il tempo della sua assenza: «Se non me ne vado, non verrà a voi il Paràclito; se invece me ne vado, lo manderò a voi». È lo Spirito, infatti, che dona la fede ed è per la fede che Cristo abita nei nostri cuori. Oggi ci sentiamo in particolar modo chiamati ad accogliere la provocazione di Paolo: «Esaminate voi stessi, se siete nella fede. […] Non riconoscete forse che Gesù Cristo abita in voi?» (2Cor 13,5).
«Tutto è grazia»: erano le ultime parole sussurrate prima di morire, dopo una vita tormentata nell'anima e oppressa dalla malattia nel corpo, dal giovane prete del romanzo di Georges Bernanos, Diario di un curato di campagna. Tutto è grazia, anche la sofferenza di non poterci riunire per l'eucaristia: la grazia di ritrovare nella nuda fede il primo principio della nostra salvezza e della nostra comunione nella Chiesa. Si dice, giustamente, che senza eucaristia non c'è Chiesa. Eppure, non sempre questo è vero: i cristiani dell'Amazzonia che non la possono celebrare se non molto raramente, o i credenti che in Cina sono in prigione o agli arresti domiciliari, o i catecumeni che, in questa Pasqua non hanno potuto celebrare il tanto desiderato battesimo, forse che non sono Chiesa? Prima ancora che i sacramenti, è la fede che crea il credente e forma la Chiesa. Il sacramento celebrato senza la fede non giova a nulla.

Essere chiamati a ricordarcelo è grazia anche per un ripensamento della nostra più abituale prassi pastorale. Tutto sembra concentrarsi sui sacramenti, per cui quando non possiamo celebrarli ci si sente nel vuoto. Troppo, in questi nostri paesi di antica tradizione cristiana, siamo abituati a considerare la fede un presupposto quasi ovvio e troppo poco ci si è dedicati a proporla agli atei, alle persone di altra religione, ai tanti battezzati che l'hanno abbandonata, ai molti, anche praticanti, dalla fede incerta e vacillante. Più che esortare: «Vieni a messa!», a molti dovremmo chiedere: «Chi è Gesù per te? Tu credi?».
Se ci sentiamo smarriti per il venir meno dell'incontro domenicale per la celebrazione eucaristica, su cui a volte capita di misurare, superficialmente, il successo o l'insuccesso della missione della Chiesa, dovremmo domandarci se, per caso, non abbiamo dimenticato che il primo e fondamentale dovere di ogni cristiano è comunicare "la gioia del Vangelo" a coloro che nulla sanno di Gesù come a coloro che sapevano, ma hanno dimenticato. Che la grazia del momento presente sia anche quella di prendere sul serio l'esortazione di papa Francesco alla Chiesa di attivarsi «per l'evangelizzazione del mondo attuale, più che per l'autopreservazione» (EG 27)?

martedì 12 maggio 2020

Dalla pandemia all'epidemia della paura


Moltissimi cristiani sono tornati a pregare e implorare Dio per la liberazione e la fine del male
di Enzo Bianchi, Vita Pastorale, maggio 2020


Che cos'è successo? Dove siamo precipitati? Sono domande poste da credenti e non credenti, smarriti e a volte angosciati. Siamo stati colpiti dalla pandemia, ma c'è stata anche un'epidemia della paura. Le stesse chiese si sono trovate inizialmente esitanti e poi si sono espresse con voce tenue, consolatoria, sì, ma priva di una capacità di "guidare", discernere i segni dei tempi; senza una parola autorevole e performativa nei confronti dei fedeli e della gente. Ancora una volta, è stato papa Francesco, soprattutto con i suoi gesti, scaturiti dalla sua umanità profonda e dalla sua capacità profetica, a essere un riferimento affidabile, un intercessore presso il Signore, un pastore in mezzo al gregge.
Certamente questa emergenza merita il nome di apocalisse, nel suo autentico significato biblico: s'è alzato un velo ed è avvenuta una rivelazione sulla Chiesa stessa, sulla sua fede, sulla sua liturgia. E quando giungerà la fine della pandemia, occorrerà interrogarsi e fare una grande operazione di discernimento evangelico, senza il quale è inutile invitare alla conversione.
Confesso di aver sofferto molto in questo tempo. Innanzitutto per quelli, tra i quali alcuni amici, che sono stati colpiti dal virus; per quelli che sono morti soli, abbandonati e senza il conforto dei sacramenti. Ma ho sofferto anche per la vita della Chiesa che, insieme ad autentici atti di carità, per l'iniziativa di alcune persone ha assunto forme non adeguate. E, a volte, neppure degne della nostra fede cristiana. Dobbiamo confessarlo: è emerso che la riforma liturgica del Vaticano II ha cambiato i riti, ma non ha mutato le mentalità e, dunque, non ha fatto maturare i cristiani verso un "culto spirituale" secondo la Parola, nel quale si offrono a Dio i propri corpi in sacrificio vivente.
Le numerose celebrazioni tecnologiche e virtuali, celebrazioni eucaristiche in chiese vuote - "messe senza popolo e popolo senza messa"! - non sono state vie offerte con intelligenza. Non s'è detto, con chiarezza, che queste non potevano essere autentiche liturgie dei sacramenti, ma solo strumenti di devozione e aiuto alla preghiera personale. Mi rincresce dirlo: inutile istituire la "Domenica della Parola", se poi non si invitano i cristiani a cibarsi della Parola, anch'essa vero corpo di Cristo, quando diventa necessario il digiuno eucaristico. Inutile parlare di "assemblea celebrante" senza tenere conto della sua presenza nel celebrare, quando il Catechismo giunge a dire con audacia: «Tutta l'assemblea è liturgia» (1144). Perché i pastori non hanno, coralmente e unanimemente, invitato i fedeli a celebrare in famiglia una liturgia domestica della Parola, soprattutto nel triduo pasquale? E perché molte comunità piccole, anche religiose, hanno preferito seguire i riti in streaming piuttosto che celebrare la liturgia della Parola?
La Chiesa di Pio XII - ne sono testimone - non permetteva la celebrazione della messa senza che almeno un laico vi assistesse, a nome del popolo di Dio. Spero vi sarà la possibilità di esprimere queste perplessità e di sollevare queste domande nello spazio ecclesiale, per trovare strade di obbedienza alla Parola e alla grande tradizione. Qui comincio con l'affrontare uno degli aspetti più semplici, più visibili ma anche contestati in questa emergenza: che preghiera fare? E soprattutto: Dio interviene nella nostra vita?
In questo periodo moltissimi cristiani sono tornati a pregare e la Chiesa appare, più che mai, un popolo che implora Dio, chiedendogli la liberazione dal male e la fine della pandemia. Il Papa, i vescovi e i pastori si fanno intercessori e invitano i credenti a pregare nelle diverse forme possibili, in una situazione in cui la liturgia eucaristica comunitaria è diventata impraticabile. Sono riapparse forme di preghiera dimenticate, desuete, e soprattutto il culto mariano si mostra ancora capace di attirare molti fedeli. Di fronte a questo inaspettato impegno nella preghiera - nelle sue forme più devozionali, va riconosciuto - vi è chi grida allo scandalo, chi s'indigna giudicando tale preghiera un'ossessiva invocazione di un Dio ridotto a idolo, una smentita dell'immagine di Dio rivelataci da Gesù.

Secondo questi pareri, ciò che avviene nella liturgia della Chiesa di fronte al male sofferto sarebbe un abuso, un ritorno alla ripetizione pagana di parole che, in realtà, affaticano Dio. Non mancano quanti pongono nuovamente la sterile e stolta domanda: «Dov'è Dio?», nella loro incapacità di chiedere a sé stessi innanzitutto: «Dov'è l'umanità?». Molti tentano risposte intellettuali, astratte, e finiscono per giudicare l'invocazione della povera gente come fede infantile, più superstiziosa che fede autentica, pensata e adulta.
Diventa, dunque, urgente metterci in ascolto della Parola contenuta nelle Scritture e accettare di esserne illuminati. È, infatti, la parola di Dio che giudica ogni nostra preghiera, ogni nostra parola di risposta al Dio che per primo ci ha parlato e ci chiede di ascoltare la sua voce. Dimentichiamo facilmente che la preghiera cristiana è prima di tutto ascolto. Ma cosa ci dice questa Parola? Innanzitutto, che il nostro Dio s'è rivelato perché ha ascoltato il grido che saliva a lui dai figli di Israele oppressi in Egitto. Ha ascoltato il grido degli umani ed è entrato nella nostra storia; non è restato lontano, nel cielo, ma s'è fatto presente in mezzo a noi.
Ecco, dunque, che il Signore agisce, ma non senza di noi e con un'azione onnipotente che s'impone, modificando il funzionamento normale delle cose. No, agisce in noi affinché possiamo operare nella storia conformemente alla sua volontà. Per questo il Signore nostro è da sempre il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Mosè, dei profeti: perché è in essi e attraverso di essi che egli è stato ed è l'Emmanue1e, il Dio-con-noi, colui che agisce nella storia. Il nostro Dio non si presenta come una forza esteriore che noi dobbiamo invocare per compiere ciò che non possiamo fare.
Che ne è allora della preghiera di domanda? Sappiamo bene che non possiamo domandare miracoli né segni, ma possiamo, anzi dobbiamo chiedere ciò che ci consente di vivere la nostra fiducia in Dio. Senza questa fiducia le nostre preghiere sarebbero superstizione. In verità - come avverte Paolo - noi non sappiamo cosa domandare al Signore, non sappiamo come pregare, ma lo Spirito santo, che è all'origine della nostra preghiera, con gemiti inesprimibili fa giungere il nostro grido a Dio, il quale guarda più al nostro cuore che alle nostre parole. Per questo Gesù ci ha invitato a pregare, a domandare, assicurandoci di essere esauditi attraverso il dono dello Spirito santo che agisce in noi con efficacia. L'angoscia che noi viviamo in certe situazioni ci fa innalzare preghiere che non sono illegittime, ma sono parole e gesti di fiducia nel Signore.
Dio è onnipotente nell'amore, perché non può mai intervenire se non attraverso un amore gratuito per tutti, buoni e malvagi, credenti e non credenti. I "fedeli credenti" nell'Evangelo possono pregare chiedendo a Dio di dare loro il pane quotidiano e di liberarli dal male. Dio ispirerà vie per procurare il pane quotidiano, per noi e per gli altri che sono nel bisogno, e ci spingerà a combattere contro il male per vincerlo. Così Dio agisce nelle nostre vite, perché è lui la sorgente della nostra resistenza al male. Sì, il nostro Dio non è un Dio cieco al quale aprire gli occhi; non è un Dio sordo al quale ridare l'udito. E il Dio che apre i nostri occhi e orecchi e ci rende capaci di amare come lui "è amore", nella cura e nel servizio dell'umanità, nella lotta contro il male.

venerdì 8 maggio 2020

"Vedere" Dio come Padre


5a domenica di Pasqua (A)
Atti 6,1-7 • Salmo 32 • 1 Pietro 2,4-9 • Giovanni 14,1-12
(Visualizza i brani delle Letture)

Appunti per l'omelia

Domenica scorsa abbiamo meditato sulla figura del "pastore", e questo ci ha forse fatto scoprire, o per lo meno intuire, che c'è tutto un legame di vita, una sorta di connaturalità tra Gesù e noi, espressa in particolare dal verbo "conoscere": «Il pastore conosce le sue pecore... le chiama una per una… Le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce».
Ora lo stesso verbo è applicato al rapporto con il Padre: «Se conoscete me, conoscerete anche il Padre; fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Il rapporto d'amore che esiste tra Gesù e il Padre è qualcosa di talmente profondo che Gesù lo esprime come un fatto di "in-abitazione" reciproca: «Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?». E lo ribadisce: «Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me».
Entrare, allora, in rapporto d'amore con Gesù significa entrare all'interno stesso di questa comunione che lui vive col Padre: «… fin da ora lo conoscete e lo avete veduto».
Perché, allora, il rapporto col Padre sembra a volte così difficile, perché ci sembra così difficile mettere Dio insieme a quello che capita? Probabilmente perché non è Gesù al centro di questo rapporto: continuiamo a pensare a Dio secondo gli schemi dell'Antico Testamento, secondo i quali Dio è una realtà inattingibile, fino al punto di dire che «non si può vedere Dio e restare in vita». Oppure immaginiamo Dio secondo schemi culturali che niente hanno a che fare con il cristianesimo. Pensare a Dio, ad esempio, come ad un essere solitario, chiuso nella sua beatitudine, non solo ce lo fa sentire estraneo, ma ci porta a guardarlo quasi come un antagonista, ci porta a sentire il rapporto con lui come qualcosa di conflittuale. Oppure, ci induce a credere in un Dio "ragioniere" che misura il conto tra meriti e demeriti.
Se sono vere le parole di Gesù, lo stesso rapporto che lo lega al Padre è il nostro: «Chi ha visto me ha visto il Padre». Gesù ha un unico termine per indicare Dio: Abbà, Padre (Papà, nella sua accezione più familiare). E quando insegna a pregare (e pregare significa mettersi in rapporto con Dio) non trova di meglio che metterci sulla bocca la parola: "Padre", e "Padre nostro".
Allora acquistano significato le parole che introducono il brano di questa Domenica: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me». Sono parole che seguono l'inizio del discorso di addio di Gesù ai discepoli nell'ultima cena: il contesto preannuncia una separazione, che avrà dei risvolti traumatici: ed è proprio in questo contesto che Gesù invita ad aver fiducia non solo in lui, ma anche nel Padre.
Il Padre, per Gesù, non è prima di tutto uno che lo manda a morire, ma è uno che gli prepara un posto: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l'avrei detto».
Qualunque sia il contesto di separazione, di dramma, di morte (e questo può essere anche altamente istruttivo rispetto ala situazione che stiamo vivendo), l'ultima parola ad avere il sopravvento non è mai ciò che possono operare gli uomini o le circostanze di particolare sofferenza, ma è questo rapporto che lega Gesù al Padre e che, in lui, lega tutti noi al Padre: «Quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io».
Eppure, tutto questo non è un motivo di rassegnazione, come a dire: «Lasciamo andare le cose come vanno, tanto non possiamo farci nulla, poi ci sarà questo bel posto», che chiamiamo il Paradiso. Il Padre non è uno che ci lascia al nostro destino, per poi darci la ricompensa rispetto a quello che non abbiamo avuto prima. È uno che in Gesù ci indica la strada per trasformare il corso delle cose. Proprio all'inizio di quel discorso di addio che Gesù dice: «Dove vado io, voi non potete venire. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri».
L'intervento di Dio nella storia non è quello di sostituirsi a quanto possiamo e dobbiamo fare noi, ma quello di illuminare il cammino di quella storia che noi stessi siamo chiamati a costruire.
La morte di Gesù ha immesso in questa storia un marchio incancellabile: l'uomo è capace di amare anche nelle situazioni più drammatiche. Occorre, da parte nostra, portare avanti la sua opera: «Chi crede in me, compirà le stesse opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre».
Si tratta di aiutarci tutti insieme a credere che esiste una forza più grande di tutto il resto: che è la forza dell'amore. Ogni gesto di amore vero compiuto, che arriva alla gratuità, al perdono, alla riconciliazione, al superamento di pregiudizi e di condanne, è un tassello per costruire un mondo secondo il sogno di Gesù.

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Chi ha visto me, ha visto il Padre (Gv 14,9)
(vai al testo…)

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Vedi anche analoga Parola-sintesi a suo tempo pubblicata
Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me (Gv 14,1) - (14/05/2017)
(vai al testo)
Vado a prepararvi un posto (Gv 14,2) - (18/05/2014)
(vai al testo)
Vado a prepararvi un posto (Gv 14,2) - (22/05/2011)
(vai al testo)

Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  Gesù, la strada che ci porta a Dio: Guardare Gesù è capire Dio! (12/05/2017)
  Gesù, l'unica Via (16/05/2014)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 5.2020)
  di Cettina Militello (VP 4.2017)
  di Gianni Cavagnoli (VP 4.2014)
  di Marinella Perroni (VP 4.2011)
  di Enzo Bianchi
  di Lectio divina: Abbazia Santa Maria di Pulsano

(Illustrazione di Bernadette Lopez: Gesù la Via)

martedì 5 maggio 2020

È lo sguardo che abbatte il "distanziamento sociale"

«La cosa splendida del parlare con gli occhi è che non ci sono mai errori grammaticali.
  Gli sguardi sono frasi perfette» (Friedrich Adolph Sorge).



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Lo psichiatra Tonino Cantelmi offre gli spunti per trovare i veri motivi di speranza dopo la pandemia.
Intervista a cura di Silvia Costantini, Aleteia 30 aprile 2020


In Italia, la fase 2 del lockdown comincia il 4 maggio con la progressiva riapertura delle diverse attività lavorative e spostamenti. Rimane comunque obbligatorio mantenere la distanza di sicurezza di almeno un metro dalle altre persone, indossare le mascherine di protezione, evitare assembramenti ecc., per non correre il rischio di essere contagiati dal Covid-19.
Il "coronavirus" sta creando anche in chi non è stato infettato conseguenze psicologiche di vario grado, legate alle emozioni e alle paure che questa situazione estrema sta suscitando in ciascuno di noi. È qualcosa di estremamente profondo e che ci porteremo a lungo.
Abbiamo interpellato Tonino Cantelmi, psichiatra e professore di Cyberpsicologia, presso l'Università Europea di Roma e presidente dell'Associazione italiana psicologi e psichiatri cattolici (Aippc), per capire gli effetti di questo distanziamento sociale sulle persone.

Distanziamento "sociale" può essere sinonimo di distanziamento relazionale o anche affettivo?
- Prof. Tonino Cantelmi: Se continuiamo a parlare di distanziamento "sociale" attiviamo inevitabilmente l'idea che si tratti di un distanziamento non solo fisico, ma, appunto, sociale. Il problema è che la pandemia ci ha fatto fare un salto verso una sorta di individualismo tecnomediato. Nella realtà, distanziamento e diffidenza; nei social e nel digitale, vicinanza e socialità. Eppure se vogliamo cogliere l'anima dell'altro, non ci serve "toccarlo", ma piuttosto guardarlo negli occhi. Lo sguardo è il vero contrasto al distanziamento "sociale". Sarebbe meglio chiamarlo distanziamento di "sicurezza". Forse, in molti casi, l'ultima immagine negli occhi delle vittime COVID-19 è quella dello sguardo di un infermiere o di un medico.

In questo periodo c'è un aumento importante di persone con fenomeni di depressione, ansia, veri e propri disturbi post traumatici di stress. Come intervenire, per ritrovare il giusto equilibrio, anche in questa fase?
- Prof. Tonino Cantelmi: Molti studi condotti in varie nazioni in occasione della SARS e alcuni studi di febbraio/aprile 2020 svolti in Cina hanno dati sconfortanti: l'evento COVID-19 ha potenzialità traumatiche e psicolesive per la popolazione in generale e aumenta il rischio psicopatologico sia in acuto (durante l'epidemia), sia negli anni successivi (per la SARS abbiamo dati che confermano la potenzialità traumatica a 3 anni di distanza).
La risposta a questo è la terapia, quella informale, fatta da relazioni buone, amicizie, sostegno in famiglia, coping spirituale [coping è un termine tecnico traducibile come "strategia di adattamento"], sostegno fra pari e aiuto di insegnanti o altre figure di riferimento: in altri termini, l'infinita rete di solidarietà relazionale e quella formale, fornita da operatori della salute mentale. A questo proposito voglio sottolineare l'estrema generosità degli psicologi italiani, che hanno offerto e ancora offrono sostegno in videochiamata gratuito alla popolazione italiana. Questo ha fatto sì che il Ministero della Salute abbia potuto attivare un servizio ad hoc (il numero verde di supporto psicologico 800833833), ma sono innumerevoli le iniziative di solidarietà attivate (per quanto ci riguarda è possibile visionarle sulla home di www.itci.it)

Ci sono delle categorie maggiormente esposte a squilibri psicologici da lockdown?
- Prof. Tonino Cantelmi: Abbiamo presentato uno studio (anche questo reperibile sulla home di www.itci.it), che segnala tre categorie di persone particolarmente a rischio: gli operatori sanitari in prima linea (dati sconfortanti ci dicono che uno su due presenta sintomi ascrivibili a quadri depressivi in acuzie di evento), i sopravvissuti alle terapie intensive e i parenti delle vittime decedute con modalità così traumatiche (separazione totale e assenza di riti funebri). Per questi gruppi di persone i dati disponibili già nelle precedenti epidemie sono allarmanti e significative.

Come sopperire al supporto terapeutico degli amici, della famiglia…per chi si trova da solo? Come dare speranza a chi non ne ha?
- Prof. Tonino Cantelmi: Molti osservatori sottolineano l'incremento della loneliness in generale: cioè una maggiore sensazione di "solitudine percepita". La loneliness è un fattore significativo di rischio per la salute mentale e riguarda la popolazione in generale, non solo chi è solo concretamente. Queste riflessioni ci inducono a pensare che la vera ripartenza è nella ricostruzione della relazione interpersonale. Dopo le macerie sanitari e quelle economiche, ci accorgeremo che ci sono le macerie emotive. Ma oltre le cure, e dopo la sbornia tecnologica, in realtà sarà necessario ripartire dalla ricostruzione delle relazioni interpersonali.

Ci può indicare degli stratagemmi di "sopravvivenza", per affrontare serenamente la "ripresa delle attività", anche se tra mille paure?
- Prof. Tonino Cantelmi: Il principale fattore è la speranza. Non ho mai condiviso la retorica dello "andrà tutto bene". Stucchevole, E' andato male, malissimo. Basterebbe il dato delle vittime. La speranza non è ottimismo. La speranza è la convinzione che comunque vada, tutto ha un senso. Occorre dare parole di senso e non stucchevoli slogan.

Quanto la fede, in momenti di depressione, può aiutare a sentirci uniti e amati?
- Prof. Tonino Cantelmi: Innumerevoli studi evidenziano che il coping spirituale è uno dei coping più funzionali nelle avversità, nelle malattie e nelle situazioni catastrofiche. E infatti prodotti digitali a contenuto spirituale hanno spopolato: dalla messa del Papa (seguita da milioni di persone), ai file audio e video che hanno inondato chat, siti e app. In rete abbiamo assistito a 2 fenomeni solo apparentemente contrapposti: l'incremento di prodotti digitali a valenza spirituale e l'altrettanto straordinario incremento di chat erotiche e di contenuti digitali sessuali. In ogni caso c'è la ricerca di un contrasto alla morte.

- Viktor Frankl invitava a trasformare il dolore in "elevazione". Come possiamo trasformare la sofferenza in un elemento di crescita?
- Prof. Tonino Cantelmi: Anche qui vorrei dire che ho trovato stucchevole la retorica del "ne usciremo fuori migliorati". No, ha un prezzo troppo alto. Trasformare il dolore in elevazione significa dare risposte agli eventi dolorosi dense di significato e senso. E questo richiede percorsi, impegno e voglia di capire. Per alcuni sarà così.

(Fonte: https://it.aleteia.org/)
(Nota: Tonino Cantelmi è diacono permanete della diocesi di Roma e Vicepresidente dell'Associazione "Comunità del Diaconato in Italia")


domenica 3 maggio 2020

Diacono, ministro della soglia


Nella domenica del Buon Pastore, dove nel vangelo propostoci dalla liturgia Gesù si definisce la "porta delle pecore", e proprio in questo momento in cui le porte delle nostre case sono chiuse, ma nella speranza che le porte del nostro cuore siano rimaste aperte per accogliere tanto disagio e tanta sofferenza, ricevo un breve pensiero "vocale" dall'amico diacono Giorgio, che trascrivo di seguito, e che mi ha messo in cuore con intensità nuova la bellezza, l'importanza e la responsabilità del nostro ministero.


Cari confratelli, care spose.
Uso un "vocale" e non lo scritto, perché lo scritto non mi basta in questo caso a dire l'emozione che mi provoca il vangelo di questa domenica. Sentire Cristo che si definisce la "porta delle pecore" e pensare a una delle più belle definizioni del nostro ministero diaconale, "ministero della soglia", beh, mi commuove perché sento tutta l'indegnità, ma anche tutta la grazia di essere chiamato a servire la "Soglia" che è lo stesso Cristo.
È una percezione che forse avrei dovuto scoprire da tempo e a voi suonerà come una cosa risaputa perché l'avete scoperta prima di me, ma avendo avuto questa chiarezza nel vedere questo dono, rileggendo ancora una volta questo brano del vangelo, beh, ho provato veramente commozione e gratitudine, pur nella mia indegnità, di essere chiamato a essere ministro della soglia per Colui che è la Porta delle pecore che conduce al pascolo e alla salvezza.
Scusatemi, ma mi urgeva nel cuore condividere questo.
Buona domenica!

(Immagine: La porta delle pecore, mosaico di Marko Ivan Rupnik)

sabato 2 maggio 2020

Il dono della "vita in abbondanza"


4a domenica di Pasqua (A)
Atti 2,14a. 36-41 • Salmo 22 • 1 Pietro 2,20b-25 • Giovanni 10,1-10
(Visualizza i brani delle Letture)

Appunti per l'omelia

Gesù si presenta in contrapposizione a coloro che non sono pastori, ma "ladri e briganti". Più direttamente, Gesù si richiama alla situazione che sta vivendo: egli è la "luce del mondo", lo ha mostrato guarendo un uomo cieco dalla nascita, e rivolge le sue parole a coloro che hanno scacciato il cieco guarito dalla sinagoga.
Nell'A.T. le "pecore" indicano spesso i membri del popolo di Israele. Il termine recinto, poi, indica quasi sempre il vestibolo davanti alla Tenda nel deserto o davanti al Tempio; rappresenta quindi simbolicamente il giudaismo.
Il pastore legittimo delle pecore, colui che entra per la porta, è Gesù, nuovo Pastore di Israele, che si è presentato al Tempio di Gerusalemme per rivelarsi ai Giudei. Tutte le pecore del recinto hanno potuto conoscere la sua dottrina, ma solo alcune di esse sono le sue pecore. Egli le conduce fuori, come Dio aveva fatto uscire il suo popolo dall'Egitto: costituisce così un nuovo popolo, la Chiesa.
I rapporti tra il Pastore e le pecore sono descritti nei termini cammina innanzi a loro e le pecore lo seguono: Egli le guida ed esse vivono con Lui, condividendo il suo progetto.

Io sono la porta delle pecore
Una volta uscite dal recinto del giudaismo (cfr. il riferimento al ceco nato espulso dalla sinagoga), le pecore passano attraverso la porta che è Gesù, per accedere alla salvezza e alla vita: «Se uno entra attraverso di me sarà salvo». La porta, però, non è soltanto un luogo di passaggio, ma appartiene già al recinto stesso. Nell'A.T. la "porta" della città o del Tempio indica spesso l'insieme della città o il Tempio stesso. Riferita a Gesù, l'immagine della porta non significa soltanto che occorre passare attraverso di Lui, ma che i beni della vita e della salvezza si trovano in Gesù. Egli non è soltanto la porta, la via di accesso, ma il nuovo recinto, il nuovo Tempio (cfr. «Io sono la risurrezione e la vita»).

Io sono venuto perché abbiano la vita e l'abbiano in abbondanza
La vita vuole diffondersi e comunicarsi: la vita, che dal Padre trabocca nel Figlio, è partecipata da Gesù a coloro che gli appartengono. Nel brano successivo Gesù si presenterà come il Pastore "bello" e mostrerà che il dono della vita scaturisce dal dono che Egli fa della propria vita per amore.
Gesù è l'unico Pastore, l'unica porta, l'unico che dà la vita piena, l'unico che ci ama. L'iniziativa parte da Lui: «Chiama le sue pecore una per una».
«Non pensate mai di essere ai suoi occhi degli sconosciuti - ha detto Giovanni Paolo II alla Giornata Mondiale della Gioventù 2000) -, come numeri di una folla anonima. Ognuno di voi è prezioso per Gesù, è conosciuto personalmente, è amato teneramente, anche quando non se ne rende conto».

Le sue pecore ascoltano... conoscono la sua voce
Sono felici di appartenergli, hanno un'intesa profonda con Lui. Lo seguono: il verbo esprime la relazione del discepolo col proprio maestro, significa dialogo con Lui, prontezza a vivere la sua parola, testimonianza gioiosa e coraggiosa, disponibilità a soffrire per Lui e con Lui.
«Eravate erranti come pecore - ci ricorda san Pietro -, ma ora siete tornati al Pastore e guardiano delle vostre anime» (1Pt 2,25 - II lettura).

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Chiama le sue pecore, ciascuna per nome (Gv 10,3)
(vai al testo…)

PDF formato A4, stampa f/r per A5:


Vedi anche analoga Parola-sintesi a suo tempo pubblicata
Io sono la porta delle pecore (Gv 10,7) - (07/05/2017)
(vai al testo)
Chiama le sue pecore, ciascuna per nome (Gv 10,3) - (11/05/2014)
(vai al testo)
Chiama le sue pecore, ciascuna per nome (Gv 10,3) - (15/05/2011)
(vai al testo)

Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  Chiamati per nome ad una pienezza di vita (05/05/2017)
  Gesù, l'unico Pastore (09/05/2014)

Vedi anche:
  Gesù, il Diacono Pastore (13/05/2014)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 5.2020)
  di Cettina Militello (VP 4.2017)
  di Gianni Cavagnoli (VP 4.2014)
  di Marinella Perroni (VP 4.2011)
  di Enzo Bianchi
  di Lectio divina: Abbazia Santa Maria di Pulsano

(Immagine: Ascoltano la mia voce, acquarello di Maria Cavazzini Fortini, aprile 2014)

venerdì 1 maggio 2020

La Parola che purifica il nostro cuore


Parola di Vita - Maggio 2020
(Clicca qui per il Video del Commento   -   oppure...)

«Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunciato» (Gv 15,3).

Dopo l'ultima cena con gli apostoli, Gesù esce dal Cenacolo e si incammina verso il Monte degli Ulivi. Con lui ci sono gli Undici: Giuda Iscariota se ne è già andato, e presto lo tradirà. È un momento drammatico e solenne. Gesù pronuncia un lungo discorso di addio, vuole dire cose importanti ai suoi, consegnare parole da non dimenticare.
I suoi apostoli sono ebrei, che conoscono le Scritture, e ad essi ricorda un'immagine molto familiare: la pianta della vite, che nei testi sacri rappresenta il popolo ebraico, oggetto delle cure di Dio, che ne è l'agricoltore attento ed esperto. Adesso è Gesù stesso [1] che parla di sé, come della vite che trasmette la linfa vitale dell'amore del Padre ai suoi discepoli. Essi dunque devono preoccuparsi soprattutto di restare uniti a lui.

«Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunciato».

Una strada per restare uniti a Gesù è l'accoglienza della sua Parola. Essa permette a Dio di entrare nel nostro cuore per renderlo "puro", cioè ripulito dall'egoismo, adatto a portare frutti abbondanti e di qualità.
Il Padre ci ama e sa meglio di noi cosa ci rende leggeri, liberi di camminare senza il peso inutile dei nostri attaccamenti, dei giudizi negativi, della ricerca affannosa del nostro tornaconto, dell'illusione di tenere tutto e tutti sotto controllo. Nel nostro cuore ci sono anche aspirazioni e progetti positivi, che però potrebbero prendere il posto di Dio stesso e farci perdere lo slancio generoso della vita evangelica. Per questo Egli interviene nella nostra vita attraverso le circostanze, permettendo anche esperienze dolorose, dietro le quali c'è sempre il suo sguardo di amore.
E il frutto saporito che il Vangelo promette a chi si lascia sfrondare dall'amore di Dio è la pienezza della gioia [2]. Una gioia speciale che fiorisce anche in mezzo alle lacrime e trabocca dal cuore, inondando il terreno circostante. È un piccolo anticipo di resurrezione.

«Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunciato».

La Parola vissuta ci fa uscire da noi stessi per incontrare con amore i fratelli, cominciando da quelli più vicini: nelle nostre città, in famiglia, in ogni ambiente di vita. È un'amicizia che si fa rete di rapporti positivi, puntando alla realizzazione del comandamento dell'amore reciproco, che costruisce la fraternità.
Chiara Lubich, meditando questa frase del Vangelo di Giovanni, ha scritto: «Come vivere, allora, onde meritare anche noi l'elogio di Gesù? Mettendo in pratica ogni Parola di Dio, nutrendocene attimo per attimo, facendo della nostra esistenza un'opera di continua rievangelizzazione. Questo per arrivare ad avere gli stessi pensieri e sentimenti di Gesù, per riviverlo nel mondo, per mostrare ad una società, spesso invischiata nel male e nel peccato, la divina purezza, la trasparenza che dona il Vangelo. Durante questo mese, poi, se è possibile (e cioè se anche altri condividono le nostre intenzioni), vediamo di mettere in pratica in modo particolare quella parola che esprime il comandamento dell'amore reciproco. Per l'evangelista Giovanni, […] infatti, c'è un legame tra la Parola di Cristo e il comandamento nuovo. Secondo lui, è nell'amore reciproco che si vive la parola con i suoi effetti di purificazione, di santità, di impeccabilità, di frutto, di vicinanza con Dio. L'individuo isolato è incapace di resistere a lungo alle sollecitazioni del mondo, mentre nell'amore vicendevole trova l'ambiente sano, capace di proteggere la sua esistenza cristiana autentica» [3].

Letizia Magri

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[1] Cf. Gv 15,1-2.
[2] Cf. Gv 15, 11.
[3] C. Lubich, Parola di Vita maggio 1982, in eadem, Parole di Vita, a cura di Fabio Ciardi (Opere di Chiara Lubich 5, Città Nuova, Roma, 2017) p. 237.


Fonte: Città Nuova n. 4/Aprile 2020
(Immagine: Io sono la vera vite, acquarello di Maria Cavazzini Fortini, settembre 2011)