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venerdì 29 giugno 2018

La fede: tocco intimità sequela, non fenomeno di massa


13a domenica del Tempo Ordinario (B)
Sapienza 1,13-15; 2,23-24 • Salmo 29 • 2Corinzi 8,7.9.13-15 • Marco 5,21-43
(Visualizza i brani delle Letture)

Appunti per l'omelia

I due miracoli, dell'emorroissa e della figlia di Giairo, si illuminano e rischiarano a vicenda comunicando con grande forza l'idea della fede come percorso individuale, non come fenomeno di massa. Tanti sono quelli che seguono Gesù e godono della sua presenza. Ma credere non coincide con un semplice stare accanto al Maestro. Lo mostra con chiarezza la donna sofferente da dodici anni che si avvicina a Gesù per toccarlo. L'emorroissa è protagonista dell'unico miracolo involontario compiuto da Gesù nei vangeli. È come se la donna rubasse la forza del Cristo a insaputa dello stesso con un semplice tocco del mantello. È sufficiente sfiorare appena il Cristo perché la salvezza di cui egli è segno possa contagiare anche lei.
Esistono vari modi per di toccare Gesù. Chissà quante decine di persone lo avranno fatto senza trarne alcun beneficio! Solo una donna, sfiorandone il mantello, ha cambiato radicalmente la propria vita.
Gesù cercherà il suo volto e la donna giungerà a vedere quello del suo salvatore. È la traiettoria completa dell'incontro: non solo toccare il Maestro, ma conoscerlo faccia a faccia. Gesù accoglie la verità della donna e chiama tale verità con il nome di «fede». Quella fede ha salvato l'emorroissa. Ora può andare in pace, guarita dal proprio male, non solo salvata. Ha ritrovato un padre, come si evince dalle parole con cui la chiama Gesù: «figlia».
In fondo anche lei è figlia, come la giovane ragazza che Giairo ha appena perduto, nonostante il tentativo di chiamare il guaritore dei Nazaret. Quando giunge la notizia terribile del decesso, ormai sembra Gesù fuori gioco. La malattia, non la morte, è il campo del suo dominio. È inutile infastidire il Maestro. Tuttavia è proprio Gesù a confortare Giairo, invitandolo a non temere e a custodire semplicemente la propria fede.
Di nuovo ritorna lo stesso termine, di nuovo un caso di solitudine e isolamento. Il padre si ritrova con una figlia ormai morta, un gran trambusto davanti a casa e un uomo che rimprovera chi piange e fa strepito perché, in realtà, la ragazza non sarebbe morta ma semplicemente addormentata. La derisione che segue ci offre la misura della solitudine che è la fede: sperare contro ogni speranza.
Dalla folla, entrando nella stanza della ragazza, passiamo a un gruppo di pochi intimi. Ci possiamo chiedere perché Gesù abbai rinunciato a un pubblico più vasto per un gesto straordinario come una risuscitazione. La risposta poggia ancora sulla natura della fede la quale non è solo causa che apre alla potenza di Dio, ma anche premessa perché possiamo vedere e comprendere la sua opera nel mondo. Chi deride Cristo non sarà certo convertito da un miracolo, per quanto straordinario. I testimoni rimarranno pochi: i genitori e i tre discepoli che seguiranno Gesù sul monte della trasfigurazione e nel Getsemani.
La fede è tocco, intimità e sequela. Non è fenomeno di massa, spettacolare e seducente. L'esito di questo cammino arduo è la vita ritrovata. Una donna con perdite di sangue viene salvata. Può di nuovo generare. Riacquista la sua fecondità. Una giovane ragazza in età di marito si rialza e riprende a camminare. Può aprirsi alla propria sponsalità. La vita fiorisce e si comunica. Questa è la grandezza del dono che Dio prepara per coloro che credono in lui.

(da Claudio Arletti, «Ai suoi discepoli spiegava ogni cosa», EDB. Commento ai Vangeli festivi dell'anno B)

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Non temere, soltanto abbi fede! (Mc 5,36)
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PDF formato A4, stampa f/r per A5:


Parola-sintesi proposta a suo tempo pubblicata:
 Non temere, soltanto abbi fede! (Mc 5,36) - (28/06/2015)
(vai al testo…)
 Figlia, la tua fede ti ha salvata (Mc 5,34) - (01/07/2012)
(vai al testo…)
 Non temere; soltanto continua ad aver fede! (Mc 5,36) - (26/06/2009)
(vai al post "Abbandonati in Lui")

Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  Alzati! Torna a ricevere e dare amore (26/06/2015)
  La vita dono della fede (29/06/2012)

Commenti alla Parola:
  di Luigi Vari (VP 5.2015)
  di Marinella Perroni (VP 5.2012)
  di Claudio Arletti (VP 5.2009)
  di Enzo Bianchi
  di Lectio divina: Abbazia Santa Maria di Pulsano
  di Letture Patristiche della Domenica

(Illustrazione di Bernadette Lopez, "La figlia di Giairo")

giovedì 28 giugno 2018

La pace con il fratello, garanzia della pace con Dio



"Rilettura", alla fine del mese, della Parola di Vita di giugno.

«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).

Essere operatori di pace comporta diffondere una cultura dell'accoglienza: promuovere il dialogo tra persone e gruppi, diversi di per sé per storia, tradizioni culturali, punti di vista, mostrando apprezzamento ed accoglienza per questa varietà e ricchezza. Accogliere l'altro è innanzitutto accettarlo come lui è, comprenderlo, ascoltarlo, svuotandosi di qualsiasi giudizio, delle proprie idee, per accogliere completamente il suo pensiero, anche se è diverso o contrario al mio.
Agire così significa testimoniare che la pace è possibile. La pace è possibile se tra di noi, nella vita di ogni giorno, testimoniamo rapporti di fraternità. La pace infatti è effetto dell'unità. Quando c'è unità fra noi e Dio, allora la pace interiore sostiene i rapporti fra le persone. La pace è frutto della salvezza che Dio opera, è quindi prima di tutto un suo dono.
Il primo passo per la pace è quindi avere la pace dentro di noi. La pace interiore rivela il nostro rapporto con il trascendente; è una potenza spirituale costante e coerente in ogni situazione perché la nostra vera pace è in Dio. Chi è unito a Dio è unito anche a tutte le persone senza esclusione, perché frutto dell'unione con Dio. Allora, può essere portatore di pace chi la possiede in se stesso. Occorre essere portatori di pace anzitutto col proprio comportamento di ogni istante, vivendo in accordo con Dio e la sua volontà.
Chi è in pace con il suo fratello è in pace con Dio: la pace con il fratello è garanzia della pace con Dio. Gli operatori di pace manifestano la loro parentela con Dio, agiscono da figli di Dio, testimoniano Dio che ha impresso nella società umana l'ordine, che ha come frutto la pace.
Allora, l'operatore di pace fa il primo passo. Il primo passo è non restare in noi stessi e di conseguenza non giudicare le intenzioni dell'altro che possiamo non comprendere… Invece è riuscire a guardare ogni giorno l'altro come lo vedessimo la prima volta, senza sommare al pensiero attuale quello dei giorni precedenti. Fare questo primo passo faciliterà il leggere quelle cose che l'altro ha in cuore. Allora è importante cercare occasioni di riconciliazione con ci sta vicino, in famiglia, sul lavoro, a scuola, in parrocchia, nelle associazioni…
Lavorare per la pace è qualcosa che ognuno, nel suo ambito, può fare: essere di esempio, non prendere posizione secondo le emozioni, stare dalla parte della giustizia e della verità senza trascurare la carità reciproca. Non aspettare che Dio faccia un miracolo, con un tocco di bacchetta magica, ma fare noi la nostra parte e vivere ciò che chiedo nella preghiera, come san Francesco: "Dove c'è odio postare l'amore, dove c'è offesa portare perdono, dove c'è discordia portare unione…".
Provare e riprovare a costruire la pace, senza indietreggiare davanti alle difficoltà nelle relazioni. Non desistere al primo tentativo fallito, ma continuare a provare, mettendo più amore e comprensione al tentativo successivo. Ecco la strategia: dall'intransigenza alla tolleranza, dalla tolleranza al dialogo, dal dialogo al rispetto e all'accettazione dell'altro, dal rispetto e dall'accettazione alla comunione… E come obiettivo ultimo l'unità! La pace si costruisce nel coro delle differenze e a partire da queste differenze si impara dall'altro, come fratelli, secondo le parole di papa Francesco.
Per poter avere la pace occorre anche perdonare e avere occhi nuovi. Gli occhi sono la lampada del corpo. Se l'occhio è limpido tutto il corpo vivrà nella luce. Luce che è amore, vincolo della perfezione. Solo l'amore reciproco può creare un legame tra noi che si rinnova ogni giorno e non ha residui dei momenti passati, ma vive con intensità il momento presente. Nel momento presente il nostro sguardo deve essere nuovo ed illuminato solo dall'amore. Avere occhi nuovi è avere una visione di misericordia. È una vera rivoluzione culturale, che stravolge la nostra visione spesso chiusa e miope.
Superare gli ostacoli alla pace, significa operare per l'altro e con l'altro, andando oltre le barriere poste da interessi contrapposti, dal desiderio di manifestare la propria potenza. Significa anche impegnarci a conoscere i germogli di pace e fraternità che già rendono le nostre città più aperte ed umane. Significa dare spazio al pensiero dell'altro, accettando le differenze senza sentirle come un peso, non giudicando le intenzioni dell'altro e non ingigantendole, cercando piuttosto di osservare l'altro per quello che è nel presente, cercando di vedere l'altro come fosse la prima volta. Fatto questo passo, è più facile riuscire a leggere quello che l'altro ha in cuore, spesso oscurato dal suo modo di fare che può sembrare fastidioso.
Tutto questo "operare per la pace" porta a vivere gli uni per gli altri. Vivere gli altri implica l'abdicare a se stessi. Se l'amore poi diventa reciproco si avverte uno scatto nella vita interiore, si conosce in maniera nuova i doni dello Spirito, si testimonia Cristo e la nostra fratellanza in Lui. Ci sentiamo fratelli perché uno è il nostro Padre. E se discutiamo tra noi come fratelli, che si riconciliano subito, che tornano sempre ad essere fratelli, come dice papa Francesco.
Allora costruire la pace significa custodirla in noi stessi. Se possiedo la pace in me, cioè se ho Dio nel mio cuore, la porto ovunque. Se, come dice san Giovanni della Croce: "Dove non c'è amore, metti amore", allora posso anche dire: "Dove non c'è pace, è lì che la debbo portare". Se possiedo la pace in me, allora sarò suo ambasciatore nel mondo. Vivere in pace non è semplicemente assenza di conflitto, non è neanche il quieto vivere, con un certo compromesso sui valori per essere sempre e comunque accettati, anzi è uno stile di vita squisitamente evangelico, che richiede il coraggio di scelte controcorrente.

venerdì 22 giugno 2018

Saper afferrare la perenne novità dell'agire di Dio


Natività di San Giovanni Battista
Isaia 49,1-6 • Salmo 138 • Atti 13,22-26 • Luca 1,57-66.80
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Appunti per l'omelia

Il venire al mondo del Battista è fonte di grande gioia e, allo stesso tempo, di uno stupore che rasenta lo sconcerto. Giovanni arriva sulla scena del mondo come pura grazia e segno dell'azione potente del Padre. I vicini manifestano una comprensibile solidarietà e vogliono entrare nella gioia di questa anziana coppia visitata dal dono della vita. Ma il loro rallegrarsi non è così semplice e immediato come sembra. Dio ha manifestato la sua «misericordia» secondo quanto ha cantato la Vergine nel suo incontro con Elisabetta, ma l'uomo non ne coglie fino in fondo la portata. Tutto appare come un rito prestabilito, da seguire nei più piccoli dettagli. La ritualità umana, però, non sa afferrare la perenne novità con cui Dio agisce. Tutto si gioca attorno alla questione del nome. La comprensibile scelta dei parenti si muove nel segno della continuità, ma la madre invece si allinea alla parola pronunciata dall'angelo al marito Zaccaria e indica un nome che, nel suo stesso significato, rimanda alla misericordia di Dio. Questo, infatti, è il significato del nome «Giovanni». I vicini e i parenti non sono in grado di penetrare sino in fondo che cosa veramente Dio sta operando. Elisabetta è sola nel sostenere la scelta del nome Giovanni. Zaccaria è solo nel suo silenzio, ormai lungo nove mesi. Anche Giovanni sarà solo, vivendo in regioni desertiche, isolato dal popolo, in intimità col suo Dio. È il sigillo della solitudine.
Giovanni, poi, chiamerà al deserto dal deserto perché l'uomo abbandoni i suoi sterili riti e ascolti una parola nuova e decisiva.
Quello che Elisabetta ha suggerito, Zaccaria lo scrive su una tavoletta. Il gesto muto ed eloquente scioglie la questione e decide il nome del precursore. La sequenza parola-scritto rende bene l'idea di cosa sia la promessa divina. Non si tratta di una semplice parola destinata a passare. È qualcosa che Dio ha scritto e rimane come prova irrevocabile di una ferma volontà di salvezza.
Se l'uomo accetta l'irruzione di Dio nella storia, allora può dire qualcosa di significativo: la sua parola ha finalmente un senso perché coglie il fattore decisivo della storia stessa. Zaccaria può dunque parlare nel momento in cui asseconda la divina parola. Solo nell'ascolto e dall'ascolto un credente può pronunciare parole significative. Se anche parliamo, al di fuori del progetto di Dio le nostre parole sono vane e passeggere.
Zaccaria ci mostra cosa sia, in ultima analisi, la parola umana. È un'eco e un riflesso degli eventi di Dio che opera.
Dopo il gesto eloquente di Zaccaria e le sue parole di lode e benedizione, finalmente parenti e vicini si dispongono non ad affermare qualcosa ma a domandarsi - nel timore di Dio, segno che si è davanti alla sua azione - che cosa ne sarà del bambino.
Il loro discorrere non è perpetuare i soliti schemi mentali, ma testimonia piuttosto una ricerca e una vera condivisione di un fatto religioso, sorprendente e in qualche modo sempre misterioso.
Ciò che l'uomo crede di aver scritto e fissato evapora davanti a quanto scrive la mano di Dio attraverso quella dei suoi servi sulla storia e sulla vita dell'uomo.
Accogliere il precursore diviene allora già una prima accoglienza del Messia, il quale viene al di fuori dei nostri pensieri e delle nostre vie, nell'assoluta novità di Dio.

(da Claudio Arletti, «Ai suoi discepoli spiegava ogni cosa», EDB. Commento ai Vangeli festivi dell'anno B)

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Giovanni è il suo nome (Lc 1,63)
(vai al testo…)

PDF formato A4, stampa f/r per A5:


Parola-sintesi proposta a suo tempo pubblicata:
 Si chiamerà Giovanni (Lc 1,60) - (24/06/2012)
(vai al testo…)

Vedi anche il post Appunti per l'omelia:
  Il servo del Servo (22/06/2012)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 6.2018)
  di Marinella Perroni (VP 5.2012)
  di Enzo Bianchi

(Illustrazione da "La Domenica": Gerusalemme, Natività di San Giovanni Battista)

giovedì 21 giugno 2018

La grazia del perdono


21 giugno – San Luigi Gonzaga

Nella memoria di San Luigi Gonzaga (di cui porto il nome), il vangelo proposto dalla liturgia (giovedì dell'11a settimana del T.O., a.p. - cf. Mt 6,7-15) ci invita a pregare secondo il cuore di Dio, a «non sprecare parole come i pagani», ad affidarci completamente al Padre che «sa di quali cose abbiamo bisogno prima ancora che gliele chiediamo». E Gesù ci dà la "sua" preghiera, il Padre nostro.
C'è un particolare di questa preghiera, la sua conclusione, che mi porto nel cuore quest'oggi: «Rimetti a noi i nostri debiti…» e «Se voi perdonerete… anche il Padre vostro perdonerà…».
Per poter amare veramente il prossimo che il Signore ci mette accanto da servire, occorre avere il cuore sgombro da ogni "impurità". Il perdono che ci viene chiesto, che è la nostra parte nell'accostarci all'altro e stabilire con lui un vero rapporto di fraternità e comunione, ci prepara alla grazia del Padre: il suo perdono. Ché solo Dio perdona i peccati!
Guardo a San Luigi, che ha saputo offrire la sua giovane vita al Signore che aveva scelto come suo unico tutto nel servizio dei poveri e degli ammalati, ed mi affido alla sua intercessione per poter ricevere anch'io quella "purezza" di cuore che mi fa vedere in ogni prossimo un volto di Gesù, un fratello che desidera essere accolto con quella grazia del perdono che il Padre ci fa sperimentare.


Altri post "San Luigi Gonzaga"…


venerdì 15 giugno 2018

L'attesa sapiente dei tempi di Dio


11a domenica del Tempo Ordinario (B)
Ezechiele 17,22-24 • Salmo 91 • 2Corinzi 5,6-10 • Marco 4,26-34
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Appunti per l'omelia

Le due brevi parabole del vangelo di questa domenica (cf. Mc 4,26-34), del seme e del granellino di senape, ci aiutano a comprendere come e che cosa cercare affinché la nostra fede non subisca un terribile depistaggio. La parabola del seme che cresce da sé, illumina la questione del "come" cercare. Il Regno può vivere un tempo di totale discontinuità, assenza, silenzio e morte apparente. La risurrezione di Gesù mostra tutto ciò in modo evidente. C'è stato un tempo in cui l'avventura del Figlio di Dio pareva terminata per sempre. Ma nei tre giorni della sepoltura, il seme caduto nel grembo della terra maturava fino alla vita nuova che la morte non può più distruggere. Il seme che cresce da sé mortifica il nostro protagonismo e anche la pretesa di tenere sempre tutto sotto controllo. Quando la vicenda della fede nostra o altrui appare ferma o sepolta, ciò non significa che sia morta. Assomigliamo troppo spesso a contadini inesperti che confondono crescita silenziosa e nascosta con mortale sparizione e, guardando il suolo privo di fili d'erba, concludono che occorre seminare di nuovo. Non siamo noi a dettare i tempi né per l'erba, né per la spiga, né per il grano dentro la spiga («Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno della spiga», Mc 4,28). Ci sarà un momento in cui l'attesa si tramuterà in un «subito» (cf. Mc 4,29). Noi dovremmo esserci in quel momento.

La seconda parabola ci istruisce sull'oggetto del nostro cercare. La fede, non abbisogna di grandi bisacce per trasportare i tesori di Dio. Il piccolo chicco di senape è qualcosa che difficilmente attira l'attenzione. Così il, Regno, infatti, è, al suo principio una realtà molto piccola, seminata, dunque apparentemente destinata, come nella parabola precedente, a sparire nel nulla.

Il contrasto suggerito dal testo evangelico a tutto ciò che è mediatico nella nostra pastorale e anche alla spasmodica attenzione ai numeri, così tipica di una Chiesa che è sempre dietro a contarsi, è palese. Noi, di fatto, tendiamo ora, da un grande albero che ospitava molti uccelli, a regredire a cespuglio, poi a semplice filo d'erba. Ma forse in questo non essere più grandi e tornare a essere piccoli, cioè seme nel mondo, sta la grazia dell'attuale momento. Anche perché ci dobbiamo chiedere se il grande albero della Chiesa, primizia del Regno, non certo sua pienezza, è sempre stato così ospitale verso tutti gli uccelli del cielo (cf. Mc 4, 32). Non abbiamo sempre coniugato grandezza, efficienza e accoglienza. Troppi uccelli non hanno trovato posto fra i nostri rami, costretti a volare altrove non certo dalle pretese del nostro radicalismo evangelico, ma da altri dettami imposti dalla nostra cecità. Ben venga allora il tempo della potatura. Il nuovo, sia che dormiamo sia che vegliamo e ci affanniamo, già cresce nel grembo della storia. È nelle mani di Dio. Questo ci facci lavorare e dormire tranquilli.

(da Claudio Arletti, «Ai suoi discepoli spiegava ogni cosa», EDB. Commento ai Vangeli festivi dell'anno B)

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Il regno di Dio è come un granello di senape (Mc 4,31)
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PDF formato A4, stampa f/r per A5:


Parola-sintesi proposta a suo tempo pubblicata:
 Come un uomo che getta il seme sul terreno (Mc 4,26) - (14/06/2015)
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 La parola di Dio è come un seme ( Canto al Vangelo) - (17/06/2012)
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Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  Dio all'opera nel silenzio e con piccole cose (13/06/2015)
  Il piccolo seme (15/06/2012)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 6.2018)
  di Luigi Vari (VP 5.2015)
  di Marinella Perroni (VP 5.2012)
  di Enzo Bianchi
  di Lectio divina: Abbazia Santa Maria di Pulsano
  di Letture Patristiche della Domenica

(Illustrazione di Bernadette-Lopez, "Il Seme, il Regno di Dio")

mercoledì 13 giugno 2018

La vera essenza del perdono


Articolo di Enzo Bianchi, tratto da www.monasterdibose.it

I cristiani che vogliono vivere quotidianamente e concretamente il Vangelo di Gesù sanno che una delle difficoltà più grandi che incontrano è la pratica del perdono. Gesù è stato molto chiaro al riguardo: "Amate i vostri nemici, perdonate a chi vi ha fatto del male, pregate per i vostri persecutori" (cf. Mc 11,25; Mt 5,44-45; Lc 6,27-28.35-37).

Il perdono richiesto da Gesù settanta volte sette (cf. Mt 18,22), cioè sempre rinnovato nei confronti di chi fa il male, è l'apice della legge dell'amore del prossimo, e dobbiamo essere grati agli ebrei i quali, fondandosi sulle Scritture dell'Antico Testamento, giudicano questo perdono a volte impossibile per noi uomini e donne, impossibile come l'amore verso il nemico. Oggi assistiamo addirittura a una mancanza di rispetto e di pudore, quando soprattutto i giornalisti chiedono alle vittime se perdonano quanti hanno fatto loro del male. Come se il perdono coincidesse con una dichiarazione verbale fatta pubblicamente e carpita come una confessione di bontà o una risposta dura, in entrambi i casi a favore di telecamera…

Mi pare però che i cristiani non sempre comprendano cosa sia il vero perdono umano, conforme alla richiesta di Gesù. Innanzitutto il perdono non può essere dimenticanza del male che ci è stato fatto, perché il male è male, va riconosciuto e giudicato come tale, quindi non va rimosso. Ma il perdono non significa neanche scusare chi ha compiuto il male: la scusa è richiesta quando il male è involontario; quando invece il male scaturisce da atti responsabili, da parole pronunciate da parte di chi è pienamente padrone della propria lingua, allora le scuse non valgono. Scusare significherebbe in questo caso fare del malfattore un irresponsabile, uno che ha compiuto il male senza saperlo. No, ci sono atti malvagi che sono inescusabili e non devono essere coperti con spiegazioni psicologiche o con parole che non riconoscono l'altro quale soggetto responsabile. Agendo in questo modo, si coprirebbe il male, lo si manipolerebbe, rendendo la vittima addirittura complice. Questa dunque non è la via del perdono, anche se appare come la via più facile e breve. Vladimir Jankélévitch ha scritto pagine penetranti e convincenti sull' "imperdonabile", che sono essenziali per comprendere la grazia e il perdono a caro prezzo.

Il perdono deve invece sempre affermare la verità e non deve arrestarsi in una regione nebbiosa in cui non si discerne ciò che è male. Proprio per questo il perdono abbisogna di un lungo cammino e di molto tempo. Ci vogliono mesi e anche anni affinché il perdono diventi un atto veramente umano e dunque cristiano. Se qualcuno mi fa del male che mi ferisce profondamente, prima di dirgli: "Ti perdono", devo imparare a non rispondere con il male, a non volere una rivalsa o una vendetta. A volte per disarmarsi è necessaria una distanza, uno stare lontano da chi è armato; a volte occorre un lungo silenzio, perché si è troppo fragili per rispondere; a volte occorre confessare a se stessi che per ora, non per sempre, è impossibile perdonare. Non si dimentichi che nella tradizione cristiana, anche nel matrimonio e ancor più nel contesto familiare allargato o nell'amicizia, prendere le distanze e separarsi è augurabile al fine di non entrare in spirali infernali. Una persona ha sempre il diritto e anche il dovere di difendersi non con la violenza, non rispondendo con le armi della lingua, ma con il silenzio e la distanza, lasciando che il tempo operi ciò che nell'immediato resta impossibile.

Perdonare sempre e subito può anche essere una tentazione di orgoglio e di protagonismo spirituale: sono talmente buono che perdono! Non si dimentichi che Gesù in croce, rivolto ai carnefici, non ha detto: "Io vi perdono", ma ha invocato Dio: "Padre, perdona loro!" (Lc 23,34). Con umiltà ha chiesto al Padre di perdonare, affidando a lui l'atto radicale del perdono di cui solo Dio può essere soggetto. Il perdono è faticoso, difficile, e quando avviene è un vero e proprio miracolo, un'azione dello Spirito di Dio, sigillo della misericordia.

(Immagine: Bosephotoarchiv)

venerdì 8 giugno 2018

Anche noi "consanguinei" di Gesù


10a domenica del Tempo Ordinario (B)
Genesi 3,9-15 • Salmo 129 • 2Cornzi 4,13-5,1 • Marco 3,20-35
(Visualizza i brani delle Letture)

Appunti per l'omelia

Il brano evangelico di questa domenica (cf Mc 3,20-35) ci presenta un episodio del ministero di Gesù che non mancherà di sorprenderci: i parenti di Gesù si recano a Cafarnao per prenderlo con sé e ricondurlo alla ragione («..i suoi uscirono per andare a prenderlo; poiché dicevano: "È fuori di sé"». Possibile che la sua famiglia sia cieca fino a questo punto? Non si rendono conto che il messia non deve essere ostacolato nel suo cammino, che nessuno può impedirgli di compiere la sua missione?
Per capire il loro atteggiamento, bisogna ricordare che i primi trent'anni di Gesù erano trascorsi nell'oscura banalità di una vita simile a quella di tutti gli altri. Poi, all'improvviso, quest'uomo abbandona il suo villaggio e si mette a percorrere il paese avanzando pretese abnormi, come quella di correggere la Legge e le venerabili tradizioni del popolo eletto. Come accettare tutto questo? In effetti, lo zelo di Gesù per la casa di suo Padre appare eccessivo, quasi folle e la sua famiglia ha molti buoni motivi per essere preoccupata. Ma egli non cesserà di sconcertarli, fino alla suprema follia della croce. Solo Maria ed alcuni parenti si lasceranno trascinare fino al calvario. Quanta fatica per accettare quell'uomo e quanta ancora ne dovranno fare per comprenderlo!

Ben diversamente grave ed inquietante è il giudizio perentorio pronunciato dagli scribi. L'evangelista non ha dubbi: è una bestemmia contro lo Spirito santo, la cui gravità deriva dal fatto che non si tratta più semplicemente di un errore sulla persona di Gesù, ma di un rifiuto positivo e deliberato della grazia e della rivelazione. Chiamare satana il figlio di Dio significa collocarsi al di fuori della salvezza.
«È posseduto da uno spirito immondo»: questo è il peccato degli accusatori di Gesù, è questa la "bestemmia" non perdonabile. Tutti gli Ebrei sanno che gli spiriti impuri possono essere espulsi solo dallo Spirito della Santità divina. La bestemmia contro lo Spirito di Santità è quando si bestemmia Gesù Cristo, negando che Egli sia Dio, pieno del medesimo Spirito, e che le sue opere vengano dalla Potenza dello Spirito Santo.

«Giunsero intanto sua madre e i suoi fratelli». I parenti sanno dell'accusa che rivolgono a Gesù, di essere un «falso profeta», che porta fuori della Legge di Mose. Ora, la pena prevista per i falsi profeti è la morte: il falso profeta «deve morire» (Dt 18,20). Ma se i parenti riuscissero a far passare Gesù per pazzo e irresponsabile, allora gli eviterebbero quel pericolo.
I parenti di Gesù erano venuti per riprenderselo con il pretesto aperto che era «uscito fuori di sé», un pazzo. E portano anche la madre di lui, come persona più convincente. Stanno fuori della porta della casa di Pietro, per la folla che si ammassava, e inviano qualcuno per farlo uscire e portarlo via con loro: «Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle sono fuori e ti cercano».
Gesù con l'occasione espone allora uno dei massimi insegnamenti del vangelo. Risponde alla chiamata con una domanda, che sembra quasi sprezzante, e non lo è affatto: «Chi è la madre mia e i fratelli miei?». Poi guarda i suoi ascoltatori intorno a Lui, e afferma: «Ecco la madre mia e i fratelli miei». Sono proprio quelli. Sono loro ma non semplicemente perché sono quelli, bensì solo per un titolo sovrano: «Chi avrà messo in opera la Volontà di Dio, questo è "di me" fratello e sorella e madre».
In forma semplice, ma abissalmente profonda, l'affermazione rimanda discretamente al fatto che anzitutto la Madre, Maria, ascolta e mette in pratica la divina Volontà. Lo narra Luca nell'annunciazione: «Ecco la schiava del Signore». Anche i "fratelli" di sangue, i cugini, che solo dopo ascolteranno la sua Parola che riconosceranno come proveniente da Dio, e la praticheranno. Tuttavia saranno come la Madre, uniti a Lui dalla carne nuova e dal sangue nuovo, quelli che nei secoli saranno i suoi fedeli ascoltatori, obbedendo a Lui nel mettere in pratica la sua Parola.

Anche a noi oggi si impone la scelta di come essere "consanguinei" di Gesù… Essendo forse un po' "pazzi" come Lui per seguirlo; non troppo "ragionevoli" se si vuole appartenere alla vera parentela di Gesù, quella che trova in lui la propria famiglia e la propria casa.

(spunti da Lectio: Abbazia Santa Maria di Pulsano)

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Chi fa la volontà di Dio, costui è per me fratello, sorella e madre (Mc 3,35)
(vai al testo…)

PDF formato A4, stampa f/r per A5:


Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 6.2018)
  di Enzo Bianchi
  di Lectio divina: Abbazia Santa Maria di Pulsano
  di Letture Patristiche della Domenica

(Illustrazione di Bernadette-Lopez, "Veri parenti di Gesù")

giovedì 7 giugno 2018

Chiamati alla diaconia
 La vocazione al ministero diaconale





Il diaconato in Italia n° 209
(marzo/aprile 2018)

Chiamati alla diaconia
La vocazione al ministero diaconale

«La gioia del Vangelo che riempie la vita della comunità dei discepoli è una gioia missionaria» (EG 21)





ARTICOLI
Uscire dal guado? (Giuseppe Bellia)
Discernere la chiamata al diaconato (Giovanni Chifari)
Come rifigurare la diaconia oggi? (Giuseppe Bellia)
Un diaconato rinnovato completa la Chiesa (John Cryssavgis)
Grazia e vocazione al diaconato (Enzo Petrolino)
Il discernimento vocazionale (CEI)
Chiamati alla diaconia (Andrea spinelli)
Identità e missione del diacono (Beniamino Stella)
Una storia da rileggere (M. Benedetta dell'Unità)
Esperti in umanità (Papa Francesco)
Il terzo figlio (Luigi Vidoni)
Quando Dio chiama (Francesco Giglio)
Annunciatori della gioia del Vangelo (Gaetano Marino)
Involuzione del diaconato (G. B.)

TESTIMONIANZE
La diaconia di don Antonio Brigliadori - I (M. Ugolini)
La paternità diaconale di Gianni Ferraresi (G. Cintolo)

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sabato 2 giugno 2018

La "cena" di Gesù


SS. Corpo e Sangue di Cristo (B)
Esodo 24,3-8 • Salmo 115 • Ebrei 9,11-15 • Marco 14,12-16.22-26
(Visualizza i brani delle Letture)

Appunti per l'omelia

«Gesù prese il pane…»
L'iniziativa di celebrare la Pasqua parte dai discepoli («Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?»). Sono loro che vogliono fare memoria della liberazione dall'Egitto. Non immaginano che cosa accadrà quella sera.
La seconda parte del brano evangelico, infatti, è il testo liturgico della primitiva comunità cristiana. Non ci sono allusioni alla cena pasquale ebraica. È la cena di Gesù.
Inconsueto è l'invito rivolto ai discepoli: «Prendete e mangiate: questo è il mio corpo» … «Prendete e bevete: questo è il mio sangue». Corpo e sangue nel senso semitico: questo sono io.
Il Maestro ha fatto di tutta la sua vita un dono. Ora coinvolge i discepoli nel condividere la sua scelta, divenendo una "persona sola" con lui.
Accostarsi all'Eucaristia non è un incontro devozionale con Gesù, ma nasce dalla scelta di essere corpo dato e sangue versato a servizio dei fratelli.

«Questo è il mio sangue dell'alleanza»
In ogni Eucaristia si rinnova e si realizza l'alleanza, il patto, l'impegno reciproco tra Gesù e noi.
Gli innamorati sentono il bisogno di dire "Ti amo", ma anche di sentirsi dire "Anch'io ti amo".
Nell'Eucaristia Gesù rinnova il suo "patto": "Sono pronto a donarvi la mia vita, vi voglio felici, vi comunico il mio modo di vivere". Da parte nostra possiamo dirgli: "Anche noi rinnoviamo il nostro dono, siamo pronti a fare ciò che a Te piace, vogliamo vivere e donarci come fai Tu".
Il minimo che possiamo fare è rinnovare questo patto nel "suo" giorno, la domenica, che significa "festa del Signore risorto".

«Dove vuoi che andiamo a preparare…?»
Gesù ha preparato con cura la Pasqua, mediante tutta la sua vita.
Non possiamo improvvisare il dono della vita. Desiderare di essere come Gesù, conoscere sempre di più la sua Parola (il Pane della Parola che in ogni celebrazione ci viene "spezzato"), cercare il bene degli altri con un cuore aperto a tutta l'umanità (il sangue versato per molti, per l'umanità): sono le strade per fare della vita intera un "servizio sacerdotale".

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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Prendete, questo è il mio corpo (Mc 14,22)
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Parola-sintesi proposta a suo tempo pubblicata:
 Prendete: questo è il mio corpo (Mc 14,202) - (7/06/2015)
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 Prese il pane, lo spezzò e lo diede loro (Mc 14,22) - (10/06/2012)
(vai al testo…)
 Prendete, questo è il mio corpo (Mc 14,22) - (12/06/2009)
(vai al post "Trasformarci in Gesù")

Vedi anche i post Appunti per l'omelia:
  È tutta l'umanità la «carne» di Dio (05/06/2015)
  Il dono più grande (08/06/2012)

Commenti alla Parola:
  di L'Amicizia presbiterale "Santi Basilio e Gregorio" (VP 6.2018)
  di Luigi Vari (VP 5.2015)
  di Marinella Perroni (VP 5.2012)
  di Claudio Arletti (VP 5.2009)
  di Enzo Bianchi

(Immagine: "Pane nelle mani" di Safet Zec, 2015)

venerdì 1 giugno 2018

Possedere in sé la pace per esserne "portatori"


Parola di vita – Giugno 2018
(Clicca qui per il Video del Commento)

«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9).

Il Vangelo di Matteo apre il racconto della predicazione di Gesù con il sorprendente annuncio delle Beatitudini. In esse, Gesù proclama "beati", cioè pienamente felici e realizzati, tutti quelli che agli occhi del mondo sono considerati perdenti o sfortunati: gli umili, gli afflitti, i miti, chi ha fame e sete della giustizia, i puri di cuore, chi si adopera per la pace.
Ad essi Dio fa grandi promesse: saranno da Lui stesso saziati e consolati, saranno eredi della terra e del Suo regno. È dunque una vera rivoluzione culturale, che stravolge la nostra visione spesso chiusa e miope, per la quale queste categorie di persone sono una parte marginale ed insignificante nella lotta per il potere ed il successo.

«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio».

La pace, nella visione biblica, è il frutto della salvezza che Dio opera, è quindi prima di tutto un Suo dono. È una caratteristica di Dio stesso, che ama l'umanità e tutta la creazione con cuore di Padre ed ha su tutti un progetto di concordia e armonia. Per questo, chi si prodiga per la pace dimostra una certa "somiglianza" con Lui, come un figlio.
Scrive Chiara Lubich: «Può essere portatore di pace chi la possiede in se stesso. Occorre essere portatore di pace anzitutto nel proprio comportamento di ogni istante, vivendo in accordo con Dio e la sua volontà. […] "…saranno chiamati figli di Dio". Ricevere un nome significa diventare ciò che il nome esprime. Paolo chiamava Dio "il Dio della pace" e salutando i cristiani diceva loro: "Il Dio della pace sia con tutti voi". Gli operatori di pace manifestano la loro parentela con Dio, agiscono da figli di Dio, testimoniano Dio che […] ha impresso nella società umana l'ordine, che ha come frutto la pace» [1].
Vivere in pace non è semplicemente assenza di conflitto; non è neanche il quieto vivere, con un certo compromesso sui valori per essere sempre e comunque accettati, anzi è uno stile di vita squisitamente evangelico, che richiede il coraggio di scelte controcorrente.
Essere "operatori di pace" è soprattutto creare occasioni di riconciliazione nella propria vita e in quella degli altri, a tutti i livelli: anzitutto con Dio e poi con chi ci sta vicino in famiglia, sul lavoro, a scuola, in parrocchia e nelle associazioni, nelle relazioni sociali ed internazionali. È quindi una forma di amore per il prossimo decisiva, una grande opera di misericordia che risana tutti i rapporti.
È quello che Jorge, un adolescente del Venezuela, ha deciso di fare nella sua scuola: «Un giorno, alla fine delle lezioni, mi sono accorto che i miei compagni stavano organizzandosi per una manifestazione di protesta, durante la quale erano intenzionati ad usare la violenza, incendiando macchine e gettando pietre. Ho subito pensato che quel comportamento non era in sintonia con il mio stile di vita. Ho proposto allora ai compagni di scrivere una lettera alla direzione della scuola: avremmo così potuto chiedere, in un'altra forma, le stesse cose che loro pensavano di ottenere con la violenza. Con alcuni di loro l'abbiamo stesa e consegnata al direttore».

«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio».

In questo tempo appare particolarmente urgente promuovere il dialogo e l'incontro tra persone e gruppi, diversi di per sé per storia, tradizioni culturali, punti di vista, mostrando apprezzamento ed accoglienza per questa varietà e ricchezza.
Come ha detto recentemente papa Francesco: «La pace si costruisce nel coro delle differenze … E a partire da queste differenze s'impara dall'altro, come fratelli…. Uno è il nostro Padre, noi siamo fratelli. Amiamoci come fratelli. E se discutiamo tra noi, che sia come fratelli, che si riconciliano subito, che tornano sempre a essere fratelli» [2].
Potremo anche impegnarci a conoscere i germogli di pace e fraternità che già rendono le nostre città più aperte ed umane. Prendiamoci cura di essi e facciamoli crescere; contribuiremo così alla guarigione delle fratture e dei conflitti che le attraversano.

Letizia Magri

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[1] Cfr. C. Lubich, Diffondere pace, Città Nuova, 25, [1981], 2, pp. 42-43.
[2] Cfr. Saluto del S. Padre, Incontro con i leader religiosi del Myanmar, 28 novembre 2017.


Fonte: Città Nuova n. 5/Maggio 2018