Nell'ultimo numero della Rivista il diaconato in Italia (marzo/aprile 2008 – 149), nella rubrica Comunicazioni è stato pubblicato un mio breve intervento dal titolo Secondo l'amore trinitario.
Lo confesso, ho sempre cercato di capire, anche alla luce della mia personale esperienza, il significato del diaconato all'interno del ministero ordinato.
Il problema mi nasce dalla domanda che mi pongo sul significato del diaconato in rapporto al presbiterato, perché – ne sono convinto - non occorre essere diaconi per fare quello che normalmente (e forse meglio) fa un semplice laico; e d'altra parte quello che potrebbe fare un diacono è stato fatto, e si continua a fare, dal prete.
Quindi non su questo versante penso ci si debba muovere, piuttosto su quello del segno, e del segno sacramentale.
D'altra parte non ho mai capito il diacono distaccato dal prete, quasi autonomo: si tratta di distinzione di ruoli all'interno dello stesso sacramento dell'ordine. Direi che il rapporto all'interno del sacramento è di tipo trinitario; un'unica realtà, un'unica presenza di Gesù, ma che si esplica in modo diverso, quasi facce di un'unica medaglia.
L'unità è espressa dal vescovo, sintesi e completezza del segno sacramentale, da cui si aprono due braccia (non identiche), il prete e il diacono, quali canali di grazia per la comunità. È l'amore di Gesù, Capo e Sposo, per la Chiesa, che si esprime attraverso il prete e il diacono, partecipi ambedue (anche se in modo distinto e loro proprio) alla «gratia Capitis». Gesù, infatti, fondò la sua Chiesa sugli apostoli i quali associarono a sé i loro collaboratori.
Per quanto riguarda il diacono, se non sviluppo la riflessione sulla realtà del segno, non comprendo appieno la sua funzione, dato che non è per quello che fa che esprime qualcosa di specifico, ma per quello che è, sia in rapporto al prete, sia alla comunità che è chiamato a servire assieme al prete. Infatti, ambedue i ministri, ognuno nel proprio ordine, sono chiamati ad essere al servizio della comunità cristiana, in «persona Christi»: è un vivere a mo' della Trinità una realtà collettiva, essendo collettiva la natura stessa dell'ordine sacro.
Ecco l'articolo:
La realtà del segno sacramentale è un tramite di grazia, e così la presenza del ministro (prete - diacono) in seno alla comunità produce effetti particolari, come rendere la comunità "matura", farla crescere non solo singolarmente nei suoi membri, ma come corpo, la fa crescere nel suo insieme quale Chiesa, Corpo di Cristo.
Il presbitero, segno dell'unità, dell'amore che porta all'unità, che riconduce tutto all'uno; il diacono, segno della distinzione, cioè dell'amore concreto, fatto di singoli atti, amore incarnato nel tessuto sociale, umano, amore che va incontro ai bisogni concreti delle persone, della gente; amore però che deve avere le caratteristiche della "carità", altrimenti non vale nulla, è "cembalo risonante" (cf 1Cor, 13,1s); carità che per sua natura porta all'unità. Se non fosse così, questo amore concreto non edificherebbe il Corpo di Cristo, componendo le membra in unità. Ma dato che il diacono è segno sacramentale di Cristo, ha in sé la grazia per attuarlo.
Rapporto quindi di complementarità tra prete e diacono: in questo senso vedo la presidenza, espressa dal sacerdote, quale segno dell'uno e la diaconia espressa dal diacono. È da notare che sia il sacerdozio che la diaconia sono vocazioni della chiesa, di tutto il popolo cristiano: i ministri servono la comunità dei battezzati sostenendo con un "carattere" specifico queste caratteristiche sacerdotali e diaconali della chiesa. In questa ottica trinitaria ho riletto il passo di Ignazio di Antiochia (Lettera ai Trallesi 2,3) sui tre ordini: «Tutti onorino i diaconi come Gesù Cristo, così anche il vescovo che è tipo del Padre; i presbiteri come sinedrio di Dio e collegio degli apostoli: senza di questi non si dà chiesa».
Mi ha impressionato il fatto che siano i diaconi ad essere accostati a Gesù Cristo e non i presbiteri; e quando l'ho letto la prima volta è stata una conferma di quanto sentivo dentro di me.
Il rapporto tra i tre ordini è trinitario: il vescovo a mo' del Padre, il diacono a mo' del Figlio, i presbiteri (anzi, il collegio dei presbiteri) a mo' dello Spirito Santo.
I presbiteri sono visti nel loro aspetto collettivo (il presbiterio), nella comunione tra loro: legano e accordano il rapporto tra il vescovo e il diacono, quasi corona, espressione dell'amore che accoglie.
In questa realtà, resa quasi plastica dalla rappresentazione rituale, liturgica, il diacono sta alla destra del vescovo (il Figlio alla destra del Padre) e lo serve: in questo rapporto fanno corona i presbiteri che contengono i due, quale espressione del loro amore, essendo loro stessi amore. Su questo aspetto del diacono quale figura di Gesù mi ha confermato quanto espresso dalla definizione stessa del diacono (quasi la sua Parola di Vita), quale figura di Cristo Servo, di Colui «che non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la sua vita» (Mt 20,28).
In realtà è su questo aspetto che conviene soffermarci: è segno sacramentale di Colui che «dà la vita», un amore concreto, fin nei minimi particolari, fino alla fine. Non per nulla il diacono è «ministro del calice» (del Sangue di Cristo)! Non certo per una semplice ritualità, ma per il suo significato intrinseco che nei segni eucaristici prende forma.
Il pane e il vino significano il Corpo e il Sangue di Cristo. Non indicano tanto due aspetti anatomici di Gesù, quanto piuttosto il mistero di Gesù che ci ha amati fino a dare la vita, realizzando in sé l'unità dell'umanità, l'unità tra noi e con Dio, l'unità del suo Corpo: il pane e il vino, segni dell'unità (il pane) e dell'amore concreto fino al sangue versato (il vino). Nella liturgia, al termine della preghiera sacerdotale, si offre al Padre Cristo stesso nei segni del pane e del vino, cioè del Corpo e del Sangue, per le mani del vescovo (pane) e del diacono (calice).
Tuttavia, il ministero ordinato, pur rapportandosi in modo trinitario (Padre, Figlio, Spirito), nella sua unità è segno di Cristo e sua presenza speciale nella Chiesa. In effetti, nel "vivere" questa relazione faccio esperienza del Padre, del Figlio e dello Spirito, ma sempre «attraverso il Figlio», dell'unico Gesù presente nel vescovo, nel presbitero, nel diacono, quasi una conferma delle parole di Gesù a Filippo: «Chi ha visto me ha visto il Padre» (Gv 14,9), sapendo che non si può andare al Padre se non per mezzo di Lui (cf Gv 14,6), «che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza» (Eb 1,3).
Non vale, caro Gigi, hai anticipato uno dei temi del mio prossimo post sui diaconi. Proprio del fatto di non guardare a ciò che può o non può fare, ma a ciò che è il diacono volevo parlare! ;-)
RispondiEliminaBello come sempre il tuo post.
Buona domenica
Pace e benedizione
Julo d.
Mi dispiace, Julo, ma era già pubblicato nella Rivista... Sono appunti che tenevo in cassetto da un sacco di tempo e che avevo mandato alla Rivista ancora l'anno scorso... e senza che me l'aspettassi, me lo sono trovato pubblicato.
RispondiEliminaDomani è la festa della SS. Trinità e mi pareva bello parteciparlo ora anche per chi non legge la Rivista del diaconato.
Comunque l'avrei prima o poi messo in rete, come altri che ho in serbo.
Il positivo è che possimo sempre farci partecipi di quello ache viviamo ed abbiamo, perché ognuno non è uguale all'altro.
Un abbraccio!
Gigi