Il vangelo di questa domenica (Mc 10,17-30) mi riporta all'essenziale, a riconoscere prioritario e al di sopra di ogni cosa (fossero ricchezze materiali o spirituali o affetti familiari) il rapporto personale con Dio. La vicenda del giovane ricco che rifiuta la proposta di Gesù è sintomatica. Claudio Arletti nel suo commento dice: «Il rischio dell'uomo religioso è certamente vivere il culto dimenticando il fratello che soffre accanto alla sua porta».
Mi viene spontaneo chiedermi se effettivamente Dio è al primo posto nella mia vita, nonostante abbia impiegato energie e volontà; e posposto tante cose alla sequela di Gesù e alle esigenze del vangelo. O se le delusioni di questa sequela sono più forti dello slancio con cui ho risposto alla chiamata.
Ho scelto Dio o le cose di Dio? Il mio rapporto personale con Lui sa dare colore e gusto alle cose che faccio per Lui e per i fratelli? O anch'io ho le mie ricchezze, cioè il mio cuore attaccato alle cose che faccio, anche con fatica, per il Regno di Dio?
È una prova ed una tentazione alla quale non ci si può sottrarre.
Mi vengono in mente le parole del card. Van Thuan, durante la "lunga tribolazione di nove anni di isolamento" nelle prigioni vietnamite: «Una notte, dal profondo del cuore una voce mi disse: "Perché ti tormenti così? Tu devi distinguere tra Dio e le opere di Dio. Tutto ciò che hai compiuto e desideri continuare a fare: visite pastorali, formazione dei seminaristi, religiosi, religiose, laici, giovani… missioni per l'evangelizzazione dei non cristiani... tutto questo è un'opera eccellente, sono opere di Dio, ma non sono Dio! Dio (...) affiderà le sue opere ad altri che sono molto più capaci di te. Tu hai scelto Dio solo, non le sue opere!". Questa luce mi ha portato una pace nuova…».
Oppure l'esperienza del card. Miloslav Vlk, quando il governo comunista gli proibì ogni attività e fu costretto a pulire "per dieci anni i vetri dei negozi per le strade di Praga". E si chiede quale fosse la sua "identità sacerdotale, senza ministero, senza apparente utilità": «Eppure Gesù, quando fissato alla croce non poteva fare i miracoli, predicare ma - abbandonato solo tacere e patire, ha raggiunto il vertice del suo sacerdozio. Ho trovato in lui la mia vera identità sacerdotale, che mi ha riempito di gioia e di pace. Poi ho capito che questa identità non si acquista per sempre in un momento d'illuminazione e di grazia, si deve cercare di continuo, soprattutto nei momenti bui, dolorosi».
Tutto questo mi riporta all'identità più profonda del mio essere diacono, seguace di quel Gesù che non è "venuto per essere servito, ma per servire e dare la vita". E, come ho scritto altre volte in questo blog, con lo sguardo rivolto soprattutto a Lui, nel momento del suo abbandono, quando fattosi "nulla" d'amore e per amore, ha dato a noi la vita e la pienezza dell'essere.
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