Riprendo l'approfondimento delle Opere di Misericordia attraverso le riflessioni di Enzo Bianchi, Priore di Bose, pubblicate su Vita Pastorale, cercando di "recuperare l'elementare grammatica dell'amore misericordioso di Dio".
Le opere di misericordia/4
Vestire quelli che sono nudi
La vita è un duro mestiere, e in essa sovente gli umani sono spogliati.
Oggi vestire quelli che sono nudi, terza opera di misericordia corporale, è diventato difficile da praticare. Ma chi è nudo? È nudo colui che è povero, che spende ciò che ha per mangiare e deve accontentarsi di vestirsi con stracci.
Un tempo la gente povera e semplice per esprimere la propria felicità ripeteva queste parole: «Abbiamo pane, casa e vestiti», ossia ciò che è necessario per vivere come umani, ciò che può assicurare l'umanizzazione delle nostre vite. Era anche un'eco, forse inconsapevole, di un'esortazione apostolica: «Quando abbiamo di che mangiare e di che coprirei, accontentiamoci» (1Tm 6,8). Oggi però vestire quelli che sono nudi, la terza nella lista delle azioni di misericordia verso i corpi, è diventato difficile da discernere e da praticare. Cosa significa, infatti, vestire ed essere vestiti? E il vestito stesso che significato porta in sé?
La nudità e il vestito
La verità è che noi umani nasciamo nudi e non abbiamo, come gli altri mammiferi, pelli e peli che ci siano di protezione. La nudità esprime la nostra fragilità, ma permette anche la bellezza unica del corpo. La nudità, che dice la nostra natura, è come una vocazione alla cultura, chiamata a dare ai nostri corpi un linguaggio, un'eloquenza. Sì, noi siamo parola, non solo con la nostra bocca e i nostri gesti, ma innanzi tutto attraverso ciò che scegliamo di mettere sul nostro corpo nudo: un mantello, un vestito, una collana, un bracciale o semplicemente un tatuaggio... Abbiamo bisogno che la nudità ricevuta dalla natura sia letta dagli altri, diventi cultura, perché solo così esprimiamo veramente la nostra soggettività. […]
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