Continuo alcune riflessioni sull’omelia che Benedetto XVI ha pronunciato Giovedì Santo (20 marzo 2008) in occasione della messa crismale.
“Stare davanti a te e a te servire”. Essere “una persona che sta dritta”, “vigilante”, che “serve”. Nella celebrazione eucaristica si “serve”, si compie “un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli uomini”. In questo culto “ci si deve inserire”!
Servire Dio e i fratelli nell’Eucaristia significa essere quello che si celebra: persone che si donano, pronte a dare la vita; l’atteggiamento stesso, le parole esprimono non tanto e non solo la ritualità, ma sono l’esternazione e la testimonianza dell’essenza della mia vita: servire Dio (che non vedo) e, per servirLo adeguatamente, servire i fratelli (che vedo).
La mia risposta all’amore di Dio per me, per noi, è quella di amare il prossimo: “Carissimi, se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri” (1Gv 4,11).
Vivere così, nel servizio, l’Eucaristia che celebro!
“Imparare a comprendere sempre più la sacra liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana”, dove “non deve essere niente di artefatto”. Ed io aggiungo, niente di “devozionale” (nel senso deteriore del termine), in quanto non esprimiamo noi stessi, ma “annullati” nel Mistero, siamo strumenti della potenza e della presenza di Dio in noi e fra noi; del suo Amore.
Questo sentire “nuovo” ci pone innanzitutto ad essere persone che “hanno familiarità con la Parola di Dio, la amano e la vivono: solo allora potranno spiegarla in modo adeguato”.
Questo non comporta che necessariamente il diacono faccia l’omelia…
Innanzitutto si può asserire che, da come il diacono proclama il vangelo, si coglie la sua “familiarità” con la Parola di Dio; ci si accorge, la gente coglie, se il mio “dar voce” alla Parola di Dio è semplice suono, o se in me “vive” Colui cui do voce, se la Parola che proclamo è vita per me, se vivo quello che proclamo.
In questo senso anche la liturgia “prende corpo”, celebro cioè il Mistero presente ed operante nell’esistenza concreta della mia vita e della vita della comunità. Il rito non è semplice lettura, asettico o, peggio ancora, vuoto: è celebrare la vita di Dio operante in mezzo a noi, vita che si vede e si coglie.
Mi viene spontaneo pensare al rapporto strettissimo tra sacerdozio e diaconia: esprime l’unico Cristo con modalità diverse. Sarebbe interessante approfondire cosa significa che il diacono proclama un Vangelo che non spiega e distribuisce una Eucaristia che non consacra!
Solo una piccola riflessione sull'ultima frase: "il diacono proclama un Vangelo che non spiega e distribuisce una Eucaristia che non consacra"
RispondiEliminaIl diacono proclama un Vangelo che non spiega a parole, ma che deve spiegare con la sua vita; e distribuisce una Eucarestia che deve consacrare facendo della sua vita e del suo ministero un "rendimento di grazie" (=eucarestia) a Dio e promuovendo la Comunione nella comunità e nella società.
Pace e benedizione
Julo d.
È proprio così! Ed è il senso di tutto il discorso. Il suo "essere" proclama la buona notizia e rende grazie. Ma quello che è importante è che il diacono non fa tutto questo "da solo", dato che il sacramento dell'Ordine è un sacramento "collettivo".
RispondiEliminaGigi