Termino con queste righe le riflessioni sull’omelia che Benedetto XVI ha pronunciato Giovedì Santo (20 marzo 2008) in occasione della messa crismale.
“Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso ‘servire’ significa vicinanza, richiede familiarità”.
Non penso che questa “vicinanza e familiarità” con il sacro si possa pienamente esprimere se non è parte essenziale, fondamentale della mia vita, se non poggia sulla scelta fondamentale di servire Dio e di metterlo al primo posto nella mia vita. “Per me vivere è Cristo”, dice san Paolo; “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me”.
Il mio celebrare non è un “fare”, il mio servire non è un “fare”, ma un “essere”: nella liturgia si celebra la Vita!
“Servire significa soprattutto obbedienza. Il servo sta sotto la parola: ‘Non sia fatta la mia, ma la tua volontà’ (Lc 22,42)”.
“La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che solo così noi saremmo liberi. La verità è che noi dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con loro. Questa libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo nella volontà di Dio”.
Questo vale per tutti, donne e uomini; vale per i ministri ordinati, vale per noi diaconi. Se “annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo”, l’unità precede ogni nostra attività, ogni nostro dovere. Sappiamo quanto sia vero il detto: “Meglio il meno perfetto in unità con i fratelli, che il più perfetto in disunità con essi”!
Penso al mio essere diacono: non ho senso da me stesso, autonomamente, ma prendo “consistenza” perché sono “parte” di un “Corpo che serve”. Io ci sono, perché ci sono i presbiteri; ed ambedue siamo, perché c’è il vescovo: espressione distinta e diversificata dell’ “uno” che il vescovo esprime.
La bellezza del diacono è che “non ha poteri”: può solo servire; la sua grandezza sta nell’essere la Volontà dell’Altro, che è la sua, sull’esempio di Gesù che ha detto: “Il mio cibo è fare la volontà di Colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34).
“Gesù è disceso dal Cielo per fare la volontà di Colui che lo ha mandato e compiere la sua opera. Non ha pensieri e progetti suoi ma quelli del Padre suo, le parole che dice e le opere che compie sono quelle del Padre; non fa la propria volontà ma quella di Colui che lo ha mandato. Questa è la vita di Gesù. Attuare ciò sazia la sua fame. Così facendo si nutre” (Chiara Lubich).
Io aggiungerei che diaconi, presbiteri e vescovi ci sono perché ci sono i fedeli. Tutta la gerarchia è al servizio del popolo di Dio.
RispondiEliminaE tutti, gerarchia e popolo sono al servizio del Signore.
Pace e benedizione
Julo d.
Pienamente d’accordo, Julo! La mia era una semplice applicazione al mio personale essere diacono, data la frequente costatazione della “insoddisfazione” di molti “colleghi” e delle loro lamentele nei riguardi dei preti che non li capiscono e non danno loro spazio… Da qui la loro sovente azione “autonoma”, che giustifichi il proprio “fare il diacono”… È essenziale essere convinti (non solo con la testa) che siamo (vescovo, preti, diaconi) “un corpo che serve” il “corpo della Chiesa”. Da qui la “dinamica” di relazione all’interno di questo “corpo che serve” perché esprima appieno la sua missione.
RispondiElimina