Si è appena celebrata, ieri 1° maggio, la Festa del Lavoro. Alla tematica del lavoro, "elemento fondamentale per la dignità della persona" come lo ha definito papa Francesco nel suo tweet, è dedicato il numero 208 (gennaio/febbraio 2018) della Rivista Il Diaconato in Italia: "Diaconato e mondo del lavoro. Per un ministero creativo e solidale".
Riporto qui di seguito un mio intervento, pubblicato in quel numero, dal titolo Il diacono e il "suo" lavoro.
Il diacono e il "suo" lavoro
Nel "Direttorio per il ministero e la vita dei diaconi permanenti", al numero 12 che tratta degli "Impegni professionali", si legge: «L'eventuale attività professionale o lavorativa del diacono ha un significato diverso da quella del fedele laico. Nei diaconi permanenti il lavoro rimane collegato al ministero; essi, pertanto, terranno presente che i fedeli laici, per loro missione specifica, sono "particolarmente chiamati a rendere presente e operosa la Chiesa in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per mezzo loro"», citando LG 33.
Il diacono permanente, quindi, pur conducendo una vita inserita in un contesto "secolare", con una sua professione e, nella stragrande maggioranza dei casi, con una famiglia propria, è chiamato ad esercitare il suo lavoro con uno spirito diverso da quello di un comune fedele laico. È quel "collegato al ministero" che fa la differenza e che alle volte si cerca di interpretare a seconda delle necessità contingenti di una chiesa particolare, come avere più tempo a disposizione per l'esercizio del ministero. Non a caso, in diverse diocesi, si preferiscono persone pensionate o che esercitano una libera professione per avere, appunto, una maggior disponibilità di tempo.
Ma questo maggior tempo a disposizione per il ministero, pur essendo una reale esigenza, è proprio il vero ed esclusivo significato di quel "collegato al ministero"? Senza dubbio è importante che il diacono permanente abbia tempo necessario per l'esercizio del ministero, diversamente sarebbe di difficile comprensione l'ordinazione di persone che non possono essere concretamente disponibili. Anche nelle "Norme fondamentali per la formazione dei diaconi permanenti", al numero 34, si legge: «[I candidati al diaconato] possono provenire da tutti gli ambiti sociali ed esercitare qualsiasi attività lavorativa o professionale purché essa non sia, secondo le norme della Chiesa e il prudente giudizio del Vescovo, sconveniente per lo stato diaconale. Inoltre, tale attività deve essere praticamente conciliabile con gli impegni di formazione e l'effettivo esercizio del ministero». È vero quindi che non sempre è "opportuno" che i diaconi permanenti esercitino alcune professioni, come lo stesso Direttorio, sempre al numero 12, descrive, specificando poi ulteriormente: «Talune professioni, pur oneste e utili alla comunità se esercitate da un diacono permanente potrebbero risultare, in determinate situazioni, difficilmente compatibili con le responsabilità pastorali proprie del suo ministero».
La differenza, infatti, tra i fedeli laici ed i diaconi permanenti che pur esercitano le stesse professioni, è che i primi esprimono più propriamente la loro missione di cristiani inseriti nel tessuto "secolare". La Costituzione conciliare Lumen Gentium, al numero 31, così si esprime: «Per loro vocazione è proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio. Vivono nel secolo, cioè implicati in tutti i diversi doveri e lavori del mondo e nelle ordinarie condizioni della vita familiare e sociale, di cui la loro esistenza è come intessuta. Ivi sono da Dio chiamati a contribuire, quasi dall'interno a modo di fermento, alla santificazione del mondo... A loro quindi particolarmente spetta di illuminare e ordinare tutte le realtà temporali, alle quali essi sono strettamente legati, in modo che sempre siano fatte secondo Cristo, e crescano e siano di lode al Creatore e al Redentore».
E in Gaudium et Spes 43 si legge: «Ai laici spettano propriamente, anche se non esclusivamente, gli impegni e le attività temporali». E sempre in Lumen Gentium 31 si legge, a riguardo di coloro che non sono laici: «I membri dell'ordine sacro, sebbene talora possano attendere a cose secolari, anche esercitando una professione secolare, tuttavia per la loro speciale vocazione sono destinati principalmente e propriamente al sacro ministero».
Cosa realizza pienamente il diacono?
Guardando a questi testi conciliari, come considerare la condizione dei diaconi permanenti, che di norma sono sposati ed esercitano una professione? Essi non si distinguono, per le loro attività nel mondo: da chiunque abbia famiglia ed una professione. Però il diacono non si realizza primariamente nel suo lavoro ma nella sua vocazione ecclesiale particolare. Il lavoro fa parte della sua vita, ma il suo scopo è un altro: per il diacono anche il lavoro rimane legato al ministero. Come questa "diversità" può realizzarsi, senza cadere nel clericale?
È la chiamata particolare a seguire Gesù che caratterizza tutta la sua vita e dà senso e spessore ad ogni attività. Chiamato a seguire Gesù in una missione particolare, il diacono è chiamato a conformare tutta la sua vita sul modello del Maestro, che è stato lavoratore prima di uscire a vita pubblica. Il lavoro per il diacono non è quindi un'aggiunta o un correttivo alla propria vita di donazione alla comunità, ma lo esercita con quel "distacco" che le esigenze della chiamata evangelica esigono. E questo comporta avere un alto concetto del lavoro, adempiendolo fedelmente con rettitudine, con tutto l'impegno professionale, morale e di testimonianza richiesto ad ogni cristiano.
Le parole di Gesù sono illuminanti: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). E «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29). Ogni discepolo del Maestro deve essere distaccato, almeno spiritualmente, dai «campi», che significa anche dal lavoro. Perché i «campi», il lavoro, vanno amati sì, ma per Dio e non prima di Lui, pronti a spostare dal proprio cuore il lavoro qualora prendesse il primo posto. E questo, a maggior ragione, per chi è chiamato ad una sequela particolare del Signore.
Quando Gesù ha chiamato i primi discepoli, facendoli «pescatori di uomini», questi «lasciarono subito le reti e lo seguirono» (Mc 1,18). È vero che, dopo questa chiamata, varie volte gli apostoli ritornarono a pescare, anche dopo la morte e risurrezione di Gesù, ma vi ritornarono con animo cambiato. Prima la pesca sarà stata tra i motivi fondamentali della loro esistenza, dopo solo una necessità per guadagnarsi da vivere, perché il motivo del loro essere non era più quel lavoro ma seguire Gesù. Così è stato anche per san Paolo che ha provveduto con le sue mani al suo sostentamento, per non essere di peso ad alcuno.
Quanti sono quei diaconi permanenti che hanno saputo posporre il lavoro, la carriera, un buon guadagno, per essere più disponibili e più interiormente liberi per il ministero! Mi ritorna alla mente l'esperienza di un amico che, in occasione della mia ordinazione diaconale, mi raccontò della sua chiamata; del fatto che vendette l'azienda di cui era titolare, cambiando professione, per essere più disponibile per il ministero.
È il fascino della chiamata, dello "sguardo" personale di Gesù! Anche per me è successo una cosa analoga, quando per le esigenze del ministero mi venne proposto, e di conseguenza anche alla mia famiglia, la disponibilità a trasferirmi in un'altra città. Con il trasferimento del posto di lavoro ad altra sede, ho messo a rischio la mia carriera lavorativa. Ma la "pienezza" interiore e la consapevolezza di fare la volontà di Dio hanno appagato ogni esigenza. Non ho fatto carriera, ma la libertà interiore, senza compromessi, mi ha reso disponibile, non solo per l'azienda ma anche per i colleghi e dirigenti con cui ho condiviso il mio lavoro. Ci sono stati anche momenti in cui le difficoltà economiche, legate a questo trasferimento e alle nuove situazioni familiari venutesi a creare come l'accensione di un nuovo mutuo o le spese per gli studi dei figli, che si sono fatte sentire in maniera più pesante con qualche sospensione. Ma non abbiamo mai dubitato dell'amore di Dio e della sua Provvidenza che puntualmente si è fatta presente. Abbiamo sperimentato di persona la verità delle parole di Gesù: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Mt 19,29).
Anche se la chiamata a seguire Gesù comporta una rinuncia agli affetti e ai beni, si .ha di contro un'abbondanza di grazie e di doni che Dio ha riservato a chi lo segue con sincerità e semplicità di cuore. Non è pensabile infatti che Dio si doni ad un'anima e un'anima si doni a Dio e tutto rimanga come prima. Lo si vede quando Gesù dice ai discepoli: «Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo» (Mt 5,13.14).
Siamo la luce del mondo non perché predichiamo o testimoniamo; siamo la luce del mondo perché la luce di Gesù si è trasfusa in noi; perché siamo di Dio, siamo figli della Luce, siamo discepoli di Gesù che è la Luce del mondo.
È implicito in chi vive così alla sequela di Gesù avere un genuino ed evangelico spirito di povertà. Una povertà non vissuta per se stessa, ma in funzione della carità, di quella carità che porta all'unità, alla comunione nella comunità: «uno stile di vita sobrio e semplice, che si apra alla cultura del dare e favorisca una generosa condivisione fraterna» (Direttorio, 9).
(Per gli altri interventi…)
Nessun commento:
Posta un commento