Nel numero 202 della Rivista Il Diaconato in Italia è pubblicato, nella rubrica "Testimonianze", un mio intervento dal titolo "Ascolto obbediente del discepolo".
Riporto qui di seguito l'intero articolo.
Il vescovo, nel rito dell'ordinazione, consegnandomi il libro del vangelo, mi ha detto: «Ricevi il vangelo di Cristo del quale sei diventato l'annunziatore: credi sempre ciò che proclami, insegna ciò che hai appreso nella fede, vivi ciò che insegni». Mi porto queste parole impresse nella mente e nel cuore, quasi un sigillo che esprime sempre, in ogni momento della mia vita, il mio dover essere: soprattutto quel «vivi ciò che insegni».
Sono stato ordinato diacono a 45 anni, dopo diversi anni di matrimonio ed un impegno serio fin dalla fanciullezza a tradurre nella mia vita quotidiana la bellezza del vangelo.
Ho avuto la grazia di poter sperimentare sempre di più col crescere dell'età che il rapporto con Dio è un rapporto personale, un "a tu per tu".
Seguire Gesù, dovunque mi avesse voluto, è stata per me l'unica cosa che ho desiderato fare nella vita: tutte le varie "vicissitudini" che mi è capitato di vivere non hanno fatto altro che metter in primo piano l'unica cosa essenziale: Dio, la scelta di Lui prima di ogni altra cosa o persona. I "vestiti", se così si può dire, che alla sequela di Gesù nel corso della vita ho indossato, cioè le situazioni concrete in cui mi sono trovato a vivere, sono stati i vari modi con cui mi veniva chiesto di rendere visibile concretamente questo mio stare con Lui, in una determinata forma o in un'altra. E l'inevitabile dolore, determinatosi ad ogni cambio di "vestito", mi ha radicato sempre di più in ciò che "non passa". Mi ritornano alla mente le parole di una canzone dei tempi della mia giovinezza: «Metto e rimetto una veste come in un gioco d'amore ... So già che Tu vincerai, solo m'importa d'amare».
Stare con Gesù significava per me conoscerlo, sapere tutto di Lui. È stata cura costante della mia vita accogliere le sue Parole come parole che hanno in sé la Vita, che mi danno il senso delle cose; soprattutto avere la coscienza che le parole della persona amata entrano profondamente nell'intimo e ti marcano nel profondo: in un certo senso parli e ragioni con le parole dell'Altro, e cerco di vivere di conseguenza.
Ormai ho imparato, certamente perché Qualcuno mi dà la forza, a non stare a vedere se riesco o non riesco a mettere bene in pratica le parole del vangelo, ma piuttosto a non distogliere lo sguardo dalla Persona che ha pronunciato quelle parole, a guardarla negli occhi e a fidarmi ciecamente di Lei, perché è più importante "stare" con Gesù che imparare bene la "lezione" ed avere il cuore altrove. Allora, nei momenti opportuni, è una gioia ed una scoperta anche intellettuale che riempie l'anima di gratitudine approfondire anche nello studio quello che cerco di vivere nella mia vita quotidiana.
Questo approccio "esistenziale" con la Parola di Dio mi ha fatto capire che avrei dovuto "imparare" con la vita tutte le parole del vangelo, ad una ad una, quasi una quotidiana comunione con Colui che è presente e nell'Eucaristia e nella sua Parola. La fede e l'esperienza mi hanno insegnato che come basta un frammento di ostia santa per cibarmi di "tutto" Gesù, così ogni parola del vangelo contiene "tutto" Gesù: viverne una alla volta significa cibarmi di "tutto" Gesù e sperimentare così tutta la sua presenza in me, nella mia vita. È un esercizio che dà i suoi frutti: mi spinge ad "appropriarmi" di ogni parola e mi rende credibile alle persone alle quali sono mandato o con le quali vivo o lavoro: ciò contribuisce ad un sempre rinnovato cambio di mentalità e mi unifica interiormente cercando di dare risposta alla menzogna esistenziale tra il predicato e il vissuto.
Prendere ogni giorno una Parola e cercare di viverla è anche un esercizio ascetico (che preferisco ad altri che non vado a cercare), più consono al mio stile di vita in mezzo al mondo, perché essere paziente, ad esempio, o misericordioso o puro... o accogliere l'altro, chiunque esso sia, è anche "penitenza", "croce": ma ad ogni "affanno", "ecco subito la gioia", l'interiore risposta di Colui che mi ha scelto. E scopro con sorpresa che, alla fine, tutte le varie parole del vangelo, diverse magari una dall'altra, mi fanno sperimentare una cosa sola, l'unione con Dio. Scopro che ciascuna di esse, nella loro essenza, sono Amore: se amo mi devo annullare, se amo sperimento l'unità, che è il Paradiso!
Questa esperienza diventa visibile quando posso comunicare ad altri la vita che nasce dalla Parola. La prima palestra è la famiglia, innanzitutto con mia moglie Chiara. Insieme ci confrontiamo quotidianamente, sforzandoci di andare al di là dei nostri limiti, perché la forza della nostra unità nasce da questa comunione con la Parola vissuta e comunicata, con semplicità, nella gioia e nel dolore, nelle delusioni che la nostra vocazione ecclesiale comporta e nella gratitudine per aver ricevuto un dono così grande, sperimentando così che l'essere "una sola carne" è essere "uno" in Gesù che ci ha uniti e come tali ci vede.
È straordinario constatare come le persone si accorgano se nella mia vita di diacono, nelle parole che dico, nelle omelie che faccio, è presente la persona di mia moglie; se la mia vita evangelica che cerco di trasmettere non è solo mia, ma è frutto della nostra unità. Sperimentiamo così la bellezza della famiglia diaconale, che sentiamo speciale, perché, famiglia come tutte le altre, è però al servizio del mondo sacerdotale, per il legame profondo che attraverso il marito diacono ha con il sacramento dell'ordine.
I frutti di questo stile di vita li posso anche cogliere nella vita in seno alla comunità parrocchiale che sono chiamato a servire. Sono stupito da come le persone siano sensibili ad un approccio alla vita del vangelo che coinvolga la loro vita quotidiana. Sentono che, prima di ogni attività nell'impegno della parrocchia, quello che vale è non venir mai meno a questo rapporto con la Parola, che insieme proponiamo a tutti, ma che primariamente cerchiamo di attuare tra noi, tra le persone più sensibili, comunicandocene i frutti che essa produce.
Senza accorgerci, soprattutto in certi momenti nei quali siamo più sensibili alle cose dello spirito, ci ritroviamo a sperimentare quel senso di famiglia che la Parola produce e che l'Eucaristia consolida. E questo è lievito che contagia.
Nella mia vita lavorativa (ora sono in pensione) ho fatto l'esperienza di quanto importante sia la testimonianza prima ancora della parola, di qualsiasi parola.
Emblematica per me è stata una volta l'esperienza con un collega, non tanto praticante, che la domenica del Corpus Domini mi ha visto in processione accanto al vescovo. L'indomani sul lavoro mi ha fatto notare, quasi compiaciuto (e questo mi ha sorpreso), di avermi visto in processione. Non ne abbiamo più parlato per parecchio tempo, continuando però a mantenere, come sempre, buoni rapporti sul lavoro. Un giorno questo collega viene ricoverato all'ospedale per un male serio. Io vado a trovarlo. Appena mi vede, si alza dal letto, lascia la moglie nella camera e, prendendomi sotto braccio, mentre camminiamo lungo il corridoio, mi racconta di sé: sono momenti profondi e preziosi. Alcuni giorni dopo vengo a sapere che è morto.
Ho capito allora che dietro ad ogni incontro si manifesta sempre l'amore di Dio per ciascuno di noi e che l'attenzione al prossimo deve essere tale da far sì che nessuno ci sfiori invano.
Sperimento ogni giorno che accogliere in me la Parola è come essere scorzato nel vivo del mio "io". Su questa "parte viva" è possibile fare l'esperienza di essere innestati nella Persona di Gesù e facilitare l'opera dello Spirito all'unità con i fratelli con i quali desidero condividere questa vita evangelica. Nella comunione eucaristica questo diventa realtà, fatti figli nel Figlio. Ed in tutta verità, per una grazia che viene dall'Alto, posso rivolgermi al Padre con le stesse parole di Gesù: «Padre, che tutti siano una cosa sola, come io e te».
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