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mercoledì 6 settembre 2017

Il Logos è divenuto carne per divinizzarci


All'inizio dell'anno pastorale si è tutti protesi a programmare un itinerario pastorale efficiente, a stendere programmi dettagliati, a prepararci spiritualmente.
Mi sono chiesto più volte se la nostra pastorale, spesso conservativa, ci faccia sperimentare quella novità alla quale lo Spirito continuamente ci sospinge. Mi preparerò anch'io per la parte affidatami. Ma la prima e forse l'unica sostanziale preoccupazione è il contatto semplice continuo con le persone che mi sono affidate nel mio servizio diaconale, persone con le loro reali aspettative e difficoltà, con le quotidiane sofferenze che ognuno porta in sé.
Ho letto, nel numero 202 della rivisita Il Diaconato in Italia, l'articolo di Giuseppe Bellia («A quanti l'hanno accolto», excursus sul Prologo del vangelo di Giovanni) che mi ha aiutato in questo approccio di inizio anno pastorale. Ne riposto la parte conclusiva (le parti evidenziate sono mie).

«[…] Charles De Foucauld ci ha insegnato che, anche in pieno deserto, si può gridare il Vangelo con la vita; e tuttavia "come sono belli i piedi di coloro che annunziano il vangelo di Cristo" (Rm 10,15). Si evangelizza testimoniando, gridando il Vangelo con la vita, quando non ci è permesso di annunciare la parola della salvezza… […]
Come evangelizzare però, senza aver già sperimentato la salvezza di Cristo? Se i testimoni non si mostrano redenti, salvati, pacificati e portatori di pace, gioiosi come può il vangelo diventare lo strumento salvifico di una storia sacra per tutti?
La ragione per cui molte indicazioni pastorali, anche se vivaci e creative, non toccano la vita reale delle chiese e le profondità del cuore dell'uomo risiede nel fatto che non sembrano scaturire da un processo di conversione; sono come devono essere e come ci si aspetta: senza stupore. Oltretutto si dà per scontato in un'epoca tumultuosa come la nostra, non più post-cristiana, ma ormai post-umana come molti la definiscono, una visione dell'uomo che non ha effettiva consistenza antropologica. Viviamo in una società satolla ed intorpidita, dominata da un capitale che si è mimetizzato, diventando biologico e adesso perfino inorganico, che opera in un anonimato che non lascia spazi a interrogazioni morali, rispondendo solo a criteri di successo, di efficienza, di potere.
Nell'indifferenza generale è saltato il principio di solidarietà, in fabbrica come in politica. Il fragile mondo dell'emigrazione, con la sua strutturale insicurezza segnala a tutti noi che in forza della fede come figli di Abramo siamo chiamati a riconoscere il nostro stato di viandanti: siamo tutti ospiti e forestieri sulla terra, perché chiunque crede fa di sé un nomade e un pellegrino.
Il prologo giovanneo ci ha mostrato il Logos venuto nel mondo per realizzare una piena relazione tra cielo e terra, e, divenuto carne, è entrato nella storia degli uomini perché il mondo avesse l'opportunità di entrare nella vita divina: incarnazione della Parola e divinizzazione dell'uomo sono dunque realtà inseparabili che ci interpellano chiedendoci la conversione del cuore, il cambiamento dei costumi, e finalmente un intelligenza adeguata, per dire Cristo dovunque e a tutti.
Tra rifiuto e accettazione la Parola continua ad offrire anche agli uomini del nostro tempo, a quanti hanno accettato di credere al mistero dell'incarnazione, la grazia di diventare figli conferendo così alla storia umana una precisa intenzionalità sacra, per la sua origine e per la sua destinazione. Nella debolezza dello straniero ogni cristiano intravede l'immagine del suo Signore crocifisso e, attraverso l'accoglienza e il dono dell'evangelizzazione, può indurre ogni emarginato a partecipare all'incarnarsi della Parola nel mondo perché la storia possa continuare a rivelarsi ancora come storia sacra».

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