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venerdì 28 febbraio 2014

La fede che ci fa vedere con occhi nuovi


8a domenica del T.O. (A)

Appunti per l'omelia

Siamo ancora, con il vangelo di questa domenica, all'interno del cosiddetto Discorso della montagna. Il brano proposto (Mt 6,26-34) si sofferma particolarmente sul distacco dai beni che coincide con il servizio al solo vero Signore. Una rinuncia che non è atteggiamento negativo, ma coerente positiva adesione all'assoluto di Dio. Ci si distacca dalle ricchezze intraprendendo il cammino della fede. L'attaccamento dell'uomo a «mammona», alla ricchezza, non è mai un problema di avidità. È piuttosto un problema di fede. Per questo il vangelo continua con una splendida esortazione a «non preoccuparsi», ma a confidare nel Padre celeste che veste i gigli del campo e nutre gli uccelli del cielo.
È importante qui cogliere il valore sublime dell'invito di Gesù. Esistevano certamente fiori più belli dei gigli del campo o animali più formosi degli uccelli del cielo. Eppure, Gesù ricorre proprio a questo esempio. Si tratta, potremmo dire, di creature minori, apparentemente tralasciate dalla cura dell'uomo che non si mette a coltivare fiori selvatici né a preparare giornalmente del cibo per gli uccelli del cielo. Ma queste creature conservavano agli occhi del Maestro un fascino incontrastato. Neppure Salomone vestiva come uno dei gigli del campo. Non tanto perché questi fiori siano particolarmente belli. Piuttosto sono soltanto se stessi, senza forzature né eccessi provenienti da ansia e insicurezza. Qui sta il loro splendore: nella bellezza della misura. Rimangono solo fiori, ma hanno l'abito che conviene, quello stesso che Dio ha pensato per loro. Esiste uno sfarzo che ben conosciamo e che urta, quasi che l'uomo non voglia più essere soltanto uomo, ma voglia aumentare la propria misura dimenticando che cos'è la vita e che cos'è il corpo, a dispetto del vestito e del nutrimento, mostrandosi agli altri per ciò che non è.
Non solo: esiste in queste forme di vita vegetale e animale una sorta di tenacia che in apparenza poco ha da spartire con la provvidenza di Dio. Gli uccelli del cielo non aspettano certo che il nutrimento arrivi magicamente. Se lo procurano, sfruttando ogni opportunità. Così è dell'erba del campo che si avvantaggia di ogni goccia d'acqua e di ogni raggio di sole. Eppure Gesù ci invita a uno sguardo diverso, uno sguardo contemplativo come il suo.
Dietro all'operosità di piccole creature, Gesù vedeva la mano del Padre che veste e nutre. Il vangelo non ci esorta certo a tralasciare lavoro e fatica, ma ci invita a vedere dietro a tutti i nostri sforzi uno sguardo d'amore che si prende cura di noi, tanto invisibile quanto concreto. È lui che permette il nostro agire e il nostro operare. La domanda vera, allora, non è mai su «che cosa» mangeremo, berremo o indosseremo, ma su "chi" veste e nutre tutto il creato.
La fede, che ci permette di "attaccarci" all'unico Signore, diviene una lente che colora tutta la realtà, permettendo di scorgere l'artefice di quel prodigio continuo e sublime che è la vita in tutto l'universo. A noi, discepoli di Gesù, spetta la ricerca del regno di Dio e della sua giustizia, a differenza dei pagani che non hanno alcun dio nel loro cuore e non possono fare altro che preoccuparsi di cibo e vestito.
Il regno di Dio è la signoria del Padre che giunge specialmente per i poveri e gli abbandonati. Proprio per coloro che vivono ai margini, come i gigli del campo, spunta una nuova alba. La giustizia del Regno consiste proprio in questo: non c'è nessuno che possa sentirsi abbandonato, anche se non ha amici importanti o possibilità di farsi sentire anche ai piani alti. È una giustizia diversa, che domanda però di uscire dagli schemi di scribi e farisei che leggono tutto come un dare e un avere, senza entrare nella logica del dono, dove, ad ogni giorno basta la propria fatica, quella di chi naviga in mare aperto, quella di chi coraggiosamente cammina sulle acque per seguire il suo Signore e sa che non affonderà.




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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Non preoccupatevi del domani (Mt 6,34)
(vai al testo) - (pdf, formato A5/A4c)


Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Marinella Perroni (VP 2011)
  di Enzo Bianchi


martedì 25 febbraio 2014

Perfetti come il Padre


«Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Mt 5,48). Come è possibile? È forse possibile? Però Gesù ce lo chiede… Grandissima è la dignità dei discepoli di Gesù! Certo non per la nostra bravura o presunta santità, quanto per il "pensiero" che Dio ha di noi: figli nel Figlio Gesù!
Mi viene spontaneo pensare come corrispondere a questa chiamata… Qual è veramente il pensiero di Gesù?
«Qualche volta - scrive Chiara Lubich -, pensando all'impegno di fare la volontà di Dio, ci sembra di dover ridurre la nostra vita soltanto ad una serie di atti perfetti.
Ma non è proprio così.
Sappiamo come Gesù abbia preso il posto che nell'Antico Testamento aveva la Legge. E quale è allora la volontà di Dio che Gesù manifesta? Qual è ora la Legge?
Essa è sintetizzata nel comandamento nuovo.
E allora vivere la volontà di Dio è vivere soprattutto quel comando, che va messo a base di tutta la vita del cristiano. […]».
Una serie di atti più o meno perfetti può essere la vita spirituale di chi cerca di andare a Dio da solo, in una spiritualità individuale, ma per chi vuol percorrere la via della santità non da solo, ma in comunione perfetta con i propri fratelli (ed il diacono, chiamato ad essere segno della carità di Cristo in seno alla comunità, può andare a Dio da solo senza i fratelli che serve?), è un'altra cosa: «dobbiamo certamente attuare la volontà di Dio nel presente con tutto il cuore, l'anima e le forze, ma nel clima del comandamento di Gesù, sulla base dell'amore reciproco. Questo vuole Gesù da noi».
Ogni giorno mi chiedo se la mia diaconia, il mio essere per gli altri, il mio impegno pastorale, in una parola la mia carità, è veramente frutto non solo di impegno personale, magari sofferto ed offerto, ma anche e soprattutto frutto che nasce dall'unità con i fratelli che Dio mi mette accanto o con i quali condivido il mio impegno apostolico. … Perché la carità se non porta all'unità, rischia di diventare "cembalo risonante".

venerdì 21 febbraio 2014

Il vero compimento della Legge


7a domenica del T.O. (A)

Appunti per l'omelia

Nel Vangelo proposto per questa domenica (cf Mt 5,38-48), continua, in un vertiginoso crescendo, la riformulazione della legge di Mosè da parte di Gesù, affinché essa sia veramente compiuta. Se le prime antitesi («È stato detto... ma io vi dico») vertevano principalmente sul male da non fare al proprio prossimo, le ultime focalizzano la nostra attenzione su quello che possiamo subire e non dobbiamo restituire, culminando nel precetto dell'amore al nemico, unica vera via per evitare la vendetta e imitare lo stile di Dio.
È da intendere bene, però, le esortazioni di Gesù per evitare di confondere il cristianesimo con pura e semplice debolezza o incapacità di reagire.
Dalla legge del taglione, «occhio per occhio e dente per dente», ritenuta efficace nel contenere la vendetta, Gesù invita a passare a un altro atteggiamento: a non fronteggiare, cioè, il malvagio, a non affrontarlo con le sue stesse armi. Infatti, allo schiaffo sulla guancia destra, che fa pensare a un colpo inferto per insultare più che per usare violenza, Gesù invita a reagire offrendo anche l'altra guancia. Tuttavia, questa non semplice non-violenza, se pensiamo che Gesù stesso agirà diversamente, secondo quanto ci descrive Giovanni del suo vangelo, quando verrà colpito dagli attendenti del sommo sacerdote. Anzi, domanderà ragione dello schiaffo ricevuto: «Perché mi percuoti?»(Gv 18,23), lasciando intendere che il comportamento del discepolo di Gesù differisce dal comportamento della nonviolenza praticata, per esempio, da Gandhi. La non-violenza, ossia lasciarsi colpire senza reagire, non ha al suo interno un vero interesse per l'altro. Non ci importa veramente di chi ci colpisce, per cui ci comportiamo come se niente fosse. Porgere l'altra guancia significa, invece, costringere l'altro a riflettere su quanto ha appena compiuto, sfidandolo a ripetere, a freddo, lo stesso gesto che ha fatto, mosso dall'ira o da altro impulso. In altre parole, un cristiano è disposto a farsi colpire una seconda volta pur di interpellare il fratello perché comprenda il male che ha fatto e possa chiederne perdono. Porgere l'altra guancia, allora, è un'altissima provocazione: essa non lascia cadere né finge che nulla sia successo, ma piuttosto non si rassegna al brutale istinto dell'altro. L'amore vero al nemico è questo, non infischiarsene per paura o per quieto vivere.
Nella stessa direzione muovono gli altri due esempi, dove appunto non si tratta di cedere tutto quanto si possiede per porre fine a una contesa, ma di mostrare l'ingiustizia dell'altro che pretende quanto non deve avere: a chi porta in tribunale per avere la tunica, bisogna lasciare anche il mantello. Allo stesso modo, quando il più forte costringe a fare un miglio, nel momento in cui l'obbligo è stato assolto, la strada deve continuare perché in colui che pratica la costrizione sorga una domanda, si muova un interrogativo su quanto è appena stato estorto con la forza.
In questo senso dobbiamo intendere anche l'esortazione a dare e a concedere prestiti. Quando però il dare è il modo migliore per togliersi dai piedi chi domanda, allora siamo molto lontani dallo spirito del vangelo. A chi domanda bisogna dare. Ma sappiamo pure che il nostro Dio non concede spesso quanto chiediamo, perché domandiamo male. Sempre a chi bussa Dio apre. Ma non sempre è la porta giusta quella a cui stiamo battendo. Chi domanda, infatti, cosa chiede veramente? Solo qualche spicciolo o vera attenzione?
Così, l'amore al nemico non è il gesto eroico di chi considera l'altro come nemico e, per essere bravo, lo ama lo stesso. Ma consiste nel non considerare nemico chi ti considera tale, divenendo quindi possibile pregare per chi ci perseguita.
Ma noi sappiamo bene che nella nostra vita quotidiana, spesso, il prossimo e il nemico coincidano. È molto difficile essere perseguitati da chi non vediamo mai. Sono le persone con cui viviamo quelle che, da prossimo, si trasformano occasionalmente in nemico. Amare il prossimo e amare il nemico, in fondo, non sono due comandamenti così distanti. È la partecipazione allo stesso amore di Dio che non fa differenze quando fa piovere su giusti e su ingiusti. Questo è l'amore «perfetto» di Dio che non considera propri nemici coloro che lo ignorano o gli sono ostili.
Essere «perfetti, dunque, come il Padre», non è tanto un atteggiamento di irreprensibilità morale (perché siamo "perfetti" nel nostro comportamento), ma la "perfezione" di cui parla Gesù è il portare a «compimento» i dettami della Legge, Legge che Gesù non è venuto per abolire ma per portare, appunto, a compimento. La perfezione, quindi, è il compimento pieno della Legge nell'amore.
Perfezione che non è mai solo eliminazione dell'errore, ma è aggiunta di misericordia e perdono. È l'amore di Dio che si compie ed è «perfetto» solo sulla croce del Figlio di Dio, dove anche l'ultimo peccatore è stato raggiunto dall'abbraccio infinito del Padre. Solo allora tutto è veramente compiuto (Gv 19,30), tutto è veramente «perfetto».



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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Siate perfetti come il Padre vostro celeste (Mt 5,48)
(vai al testo) - (pdf, formato A5/A4c)


Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Marinella Perroni (VP 2011)
  di Enzo Bianchi


domenica 16 febbraio 2014

Il diacono e le sfide del nostro tempo [3]


La rivista Il Diaconato in Italia dedica il n° 181 al diaconato dentro le sfide del nostro tempo.
Nel riportare i vari articoli nel mio sito di testi e documenti, segnalo questi ulteriori interventi.







La sfida della politica (Analisi)
di Bartolomeo Sorge
In occasione dell'apertura del "Laboratorio di Politica" a Catania (2/2009), p. Sorge parlò scaldando il cuore e le menti di quanti guardavano a un nuovo inizio. Questa esigenza forte non è mutata nel momento che stanno attraversando le famiglie italiane profondamente coinvolte nella diaconia di Cristo.

Una della conseguenze di questa crisi globale, strutturale, è la fine della democrazia rappresentativa. Noi stiamo vivendo la fine di quella democrazie che ha dato all'Italia, distrutta moralmente e fisicamente dalla II guerra mondiale e da vent'anni di fascismo, di diventare una delle prime nazioni occidentali sviluppate (non chiedetemi più che numero siamo, se siamo quinta o sesta, perché ogni tanto la classifica oscilla). Quello che è importante è renderci conto che siamo ad una svolta storica. Di qui l'importanza di leggere la crisi e di trovare la soluzione per ridare un'anima alla politica, perché la politica è il sangue dell'organismo. Se non regge la sanità interiore dell'organismo, non si va da nessuna parte. Ricominciamo dalla politica. Allora, in che modo è avvenuta questa crisi della democrazia rappresentativa? Non rappresenta più! Il Parlamento che oggi ci governa, non rappresenta l'Italia, noi non lo abbiamo scelto, non abbiamo eletto noi il Parlamento che oggi ci governa, lo abbiamo ratificato, che è diverso. Lo hanno scelto una trentina di persone, i segretari dei partiti che a Roma hanno confezionato le liste.
[…]
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La famiglia oggi: inquietudini e risorse (Approfondimento)
di Carlo Maria Martini
Dal Discorso alla città di Milano per la vigilia di s. Ambrogio, 6.12.2000

Il matrimonio e la famiglia appaiono oggi al vertice dell'attenzione e delle premure della Chiesa. Nei discorsi dei papi, nella riflessione teologica, nella letteratura spirituale, l'amore coniugale, la sua valenza oblativa e la sua fecondità sono spesso proposte, a partire dai dati biblici, quale espressione e figura dell'amore stesso di Dio e persino quale possibile riflesso del mistero trinitario. Matrimonio e famiglia rappresentano uno dei fuochi tematici privilegiati della attuale predicazione, del magistero e della cura pastorale.
Tuttavia non è sempre stato così. […]

Forza e debolezza della famiglia […]
Il ruolo pubblico della famiglia […]
Per ripresentare il valore pubblico della famiglia […]
[…]
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Cristiani e politica (Dialogo)
di Tonino Bello
Come vede la presenza dei cristiani nel sociale e nel politico?
Anzitutto, non solo sono convinto di quanto afferma la Gaudium et spes, che parla della politica come di «un'arte nobile e difficile», ma condivido in pieno l'espressione di Paolo VI, il quale afferma che «la politica è una maniera esigente di vivere l'impegno cristiano al servizio degli altri». […]

In concreto, come si caratterizza l'azione politica del credente?
Il cristiano che fa politica deve avere non solo la compassione delle mani e del cuore, ma anche la compassione del cervello. Analizza in profondità le situazioni di malessere. Apporta rimedi sostanziali sottratti alla fosforescenza del precariato. Non fa delle sofferenze della gente l'occasione per gestire i bisogni a scopo di potere. Paga di persona il prezzo di una solidarietà che diventa passione per l'uomo. […]
[…]
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Le gioie e le attese di questi uomini (Confronti)
di Francesco Giglio
Mi è sempre piaciuto l'invito evangelico ad «essere sempre lieti nel Signore». Un invito che ci spinge a scoprire il senso vero della gioia che per uno che crede in Cristo non è l'assenza del dolore, delle sofferenze, dei tanti conflitti e dei tanti problemi. È soprattutto aver scoperto che solo Gesù può donarci la pace del cuore e quindi la gioia interiore. La gioia, quindi, è il frutto dello Spirito, che è dono del Signore crocifisso e risorto che non può essere personale e privato ma deve essere condiviso con i fratelli e le sorelle che sono il nostro prossimo. La nostra gioia deve essere come quella provata dagli apostoli quando videro in mezzo a loro il Signore risorto o come quella della donna del Vangelo che trova la moneta perduta o di quello che vende tutto per comprare un campo dove è sepolto un tesoro.
[…]
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venerdì 14 febbraio 2014

La giustizia che ha la sua radice in Dio


6a domenica del T.O. (A)

Appunti per l'omelia

Leggere alla lettera il discorso della montagna di Gesù e le esigenze della nuova giustizia che Egli ci propone, superiore a «quella degli scribi e dei farisei» (cf Mt 5,17-37), non può che impressionare per la radicalità di cui è impregnata.
Facilmente siamo tentati di dare voce alla parte "farisaica" che è in noi o semplicemente alle categorie moraliste che ancora ci dominano, tentando così di sminuirne la portata e il suo coinvolgimento.
«Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 5,20). Così, molto spesso, di fronte alle esigenze di Gesù e col rischio di rimanere esclusi dal suo regno, facciamo risuonare le nostre giustificazioni, che spengono la giustizia.
Verso gli altri, che ci stremano con le loro incongruenze: "Se tutti fanno così, perché io no?"… "Se sono i ricchi e i potenti che rubano e uccidono, perché io no?"… Ma Gesù è perentorio: «Avete inteso che fu detto… ma io vi dico…» (cf Mt 5,21.22).
Verso noi stessi, che sentendoci vittime delle nostre tendenze negative che facciamo fatica a controllare: "Se la mia parte animale è così, che ci posso fare?... "È la società che ci condiziona… è la televisione che ci invade fin nella nostra intimità"… Ma Gesù è senza mezzi termini: «Avete inteso che fu detto… ma io vi dico…» (cf Mt 5,27.28.32).
Verso Dio. E risuonano le parole di coloro che si dicono praticanti: "Ho fatto tanto per lui, e lui non mi ascolta, non mi risponde, non mi ha fatto la grazia, non mi ha dato il lavoro che volevo!". E quelle degli scettici: "Guarda le tragedie del mondo, la fame, la guerra, i cataclismi: non dovrebbe Dio mantenere le promesse di vita? E se non le mantiene lui, perché dovrei farlo io?". Ma anche per i giuramenti e le promesse, Gesù insiste: «Avete inteso... ma io vi dico...» (cf Mt 5,33.34).
È questo un brevissimo sguardo emotivo sul nostro modo di intendere la giustizia, di fronte al quale, ovviamente, le esigenze della nuova legge di Gesù stridono e inquietano. Forse, però, il vero punto nevralgico sta nel termine di paragone: se infatti mi confronto con me stesso e la mia fragilità o con gli altri, inevitabilmente avrò delle buone giustificazioni sul mio atteggiamento e sui miei comportamenti, anche quando sono sbagliati. Ma non avrò giustizia.
Perché la giustizia che ci propone Gesù, quella di Dio, nasce da un presupposto fondamentale: essa è frutto di un rapporto, una relazione nuova proprio con chi ha dato origine alla giustizia: Dio. Da qui nascono le esigenze del Vangelo, che sono per me (non per gli altri) assolutamente radicali! Ecco cosa ci dona e propone Gesù: una giustizia radicale.
Radicale, innanzitutto perché va alla radice. È Dio che per primo non ha ucciso, né di fronte ai tradimenti del suo popolo né con il suo volto onnipotente e maestoso; piuttosto, ha dato per noi la vita di suo Figlio, che si è lasciato uccidere al posto nostro. Dio non ci ha rinnegato né ripudiato, nonostante noi, popolo sposato e prediletto, che abbiamo più volte scelto l'adulterio; piuttosto, è tornato a sedurci, a conquistare il nostro cuore, a stringere definitivamente un'Alleanza sponsale, mosso unicamente dall'amore, che potremmo umanamente definire "pazzesco".
Radicale, poi, che significa totalizzante, che porta a compimento, che dà frutti in abbondanza e porta alla pienezza dell'amore. Dalla radice viene la vita piena e traboccante, perché dalla radice scorre la linfa vitale dell'amore, rendendo tutta la pianta capace di amare allo stesso modo. Attaccato alla radice il mio cuore è sazio e "il mio calice trabocca".
Allora, la giustizia radicale non si limita a rispettare i precetti della Legge facendo del minimo che debbo fare la mia unità di misura, ma si esprime nel massimo della donazione di sé! L'altra faccia della giustizia di Dio, infatti, è la sua misericordia, capace di sconvolgere le aspettative di chi sbaglia, perché non va in cerca del colpevole per condannarlo, ma insegue e persegue la colpa per debellarla.
Per Dio noi siamo più importanti, valiamo di più, delle nostre colpe! Così anche il nostro atteggiamento verso gli altri: la dignità della persona umana, fatta ad immagine di Dio, vale di più delle colpe che può aver commesso!



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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Sia il vostro parlare: "Sì, sì", "No, no" (Mt 5,37)
(vai al testo) - (pdf, formato A5/A4c)


Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Marinella Perroni (VP 2011)
  di Enzo Bianchi


martedì 11 febbraio 2014

Il diacono e le sfide del nostro tempo [2]


La rivista Il Diaconato in Italia dedica il n° 181 al diaconato dentro le sfide del nostro tempo.
Nel riportare i vari articoli nel mio sito di testi e documenti, segnalo questi ulteriori interventi.







Il diacono con l'occhio rivolto al mondo (Il Punto)
di Andrea Spinelli
Che il nostro tempo ci presenti sfide ben determinate credo non abbia bisogno di essere dimostrato: ci troviamo, volenti o nolenti, di fronte a situazioni inedite, almeno nella loro forma concreta, e ciò senza dubbio procura smarrimento a noi cattolici, abituati ad essere maggioranza e ad avere le idee chiare sulle scelte da compiere e su relativo comportamento. Ormai non è più così, tutto o quasi sembra sconvolto da idee "moderne", apparentemente indiscutibili sul piano della libertà dell'individuo e sull'orizzonte fondamentale del vivere sociale. Non sono un esperto sociologo, ma la mia età anagrafica mi ha reso spettatore (forse non attore) di un cambiamento così radicale da credere che tutto sia avvenuto in un lungo intervallo di tempo invece che assai breve, come di fatto è capitato.
[…]
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Diaconi e migrantes (Focus)
di Raffaele Iaria
La Chiesa non deve «chiudersi in se stessa, nei propri uffici, gruppi, parrocchie, etc., ma andare "oltre" verso le "periferie esistenziali"». Non dobbiamo «chiudere dentro Gesù e non farlo uscire», ha detto papa Francesco aggiungendo che «oggi viviamo in una cultura dello scontro, della frammentarietà, dello scarto». E così, purtroppo, «non fa notizia quando muore un barbone per il freddo». Eppure «la povertà è una categoria teologale perché il Figlio di Dio si è abbassato per camminare per le strade».
Un invito non certamente nuovo, quello del papa. Da sempre la Chiesa ha invitato ad uscire e ad essere a fianco dei più bisognosi coinvolgendo l'intero "popolo di Dio" e quindi, ponendo, pur con le dovute e sostanziali diversità ministeriali e carismatiche, vescovi, sacerdoti e laici, sullo stesso piano passando da una concezione piramidale e fortemente gerarchica ad una concezione comunionale, poiché tutti corresponsabili nella testimonianza della Parola di Cristo a partire proprio dai più poveri.
[…]
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Linee di speranza per il nostro tempo (Servizio)
di Enzo Petrolino
Illustrando la vera e nobilissima concezione della pace, il Concilio, condannata l'inumanità della guerra, intende rivolgere un ardente appello ai cristiani, affinché con l'aiuto di Cristo, autore della pace, collaborino con tutti per stabilire tra gli uomini una pace fondata sulla giustizia e sull'amore e per apprestare i mezzi necessari per il suo raggiungimento. Così si esprime la Gaudium et Spes al n. 77 parlando della promozione della pace tra le nazioni. È pertanto importante tornare a riflettere sulle analisi e sulle indicazioni offerte dalla costituzione conciliare, per verificarne il valore e coglierne la sapienza. Ma la Gaudium et Spes non si limita agli interrogativi di fondo. Nel desiderio di rendere un più concreto servizio all'uomo del nostro tempo, essa scende anche sul terreno dei problemi immediati che lo assillano. Il problema della povertà e del suo superamento mediante una economia rispettosa del valore primario della persona rimanda così a un discorso più ampio di etica politica. Giustamente pertanto, la Gaudium et spes, dopo aver considerato l'ambito economico, dedica pagine eloquenti alla fondamentale necessità di promuovere, nelle nazioni e tra le nazioni, una vita politica ispirata ad irrinunciabili valori morali (cf. GS 73-90). L'appello del Concilio a promuovere la pace è tuttora quanto mai vivo ed urgente.
[…]
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lunedì 10 febbraio 2014

Perché e per chi lo facciamo?


Nella parrocchia dove presto il mio servizio diaconale, il parroco ha consegnato a tutti i fedeli una sua lettera pastorale nella quale vuole fare partecipi tutti di una realtà che gli sta particolarmente a cuore, un invito a «fermarsi a riflettere su un aspetto - così inizia la lettera - che da tempo mi interroga anche perché suggerito dal confronto con tanti di voi»: il senso del nostro servizio.
Vorrei riportare alcuni passi significativi della lettera che esprime il senso genuino del nostro vivere in seno alla comunità cristiana e del nostro servizio, soprattutto verso chi è nel bisogno, stretto dalla precarietà.
«Sempre più spesso mi domando: "Per chi lo facciamo? Per loro o per noi?". Questa è una domanda che ci dovremmo sempre fare quando operiamo qualunque tipo di servizio alle persone. Perché e per chi lo faccio? E la prima risposta, catechisticamente corretta, che viene da dare è: "per il Signore!". Ma proviamo ad andare oltre, un po' più a fondo, proprio per ridare vigore e verità a questa già giusta risposta. Lo facciamo per i bambini e gli anziani della nostra parrocchia, due facce di una medaglia che ha come nome "piccoli". Lo facciamo per i tanti che bussano alle porte del Centro di ascolto Caritas e che sono i nostri "poveri". È tutto vero! Ma io sono sempre più persuaso che, in primis, questo tipo di attività serva a ciascuno di noi perché abbiamo bisogno di tradurre in pratica tanti concetti e parole che altrimenti rimarrebbero distanti dalla realtà.
Lo facciamo ''più per noi che per loro" quando abbiamo bisogno di ritrovarci tutti insieme a vivere un'avventura comune, una realtà condivisa da tutte le fasce d'età e dai vari gruppi di provenienza. E poi sappiamo che il servizio ha la sua ricompensa nel servizio stesso, nel ritorno di un sorriso di chi è solo e trova un po' di calore in una serata passata in compagnia o di chi ci offre un "grazie" per un dono inatteso...
Tuttavia, come famiglia parrocchiale, siamo chiamati a crescere nella custodia del fratello e questo possiamo farlo solo compiendo lo sforzo di "abbassarci" verso lui esattamente come fa Dio con ciascuno di noi. Dio ha scelto di farsi uomo, piccolo, per farsi nostro prossimo... E così noi diventiamo "grandi", nella vita, quando siamo capaci di "farci piccoli" per gli altri chinandoci verso loro. Penso sia importante quindi in tutte queste circostanze (e non solo in queste!) privilegiare all'efficientismo l'ascolto e la chiacchierata, la carezza e la domanda, provare ad entrare davvero in relazione con gli altri perché questo è il servizio più prezioso che possiamo fare. L'esperienza di tanti nostri amici del Centro di ascolto Caritas ce lo insegna chiaramente. L'ascolto dell'altro ci rinvigorisce e fa bene perché ascoltando l'altro impariamo a conoscere (anche) noi stessi e le nostre capacità. Impariamo a confrontarci con le nostre abilità e i nostri limiti. Impariamo a misurarci con il vero senso del dono di sé, provando a svuotarci di noi stessi per lasciare spazio all'altro. A volte è difficile ma è una sfida che vale la pena affrontare. Per accogliere veramente l'altro dobbiamo essere disposti a mettere da parte qualcosa di noi (fosse anche il nostro pregiudizio!), diversamente non ci sarà mai uno spazio adeguato in noi per gli altri.
Ed anche questo richiede impegno... Per riuscire ad ascoltare l'altro dobbiamo imparare a tacere. Per favorire l'incontro dobbiamo imparare ad accettare l'altro esattamente così com'è e non come lo vorremmo noi. […]
Ogni forma di servizio (in parrocchia e fuori!) per noi cristiani diventa scintilla di Dio e scopriamo che - cito papa Francesco - "Ogni essere umano è oggetto dell'infinita tenerezza del Signore, ed Egli stesso abita nella sua vita. […] Se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita. È bello essere popolo fedele di Dio". (Evangelii Gaudium, 274).
Possiamo allora davvero fare Eucarestia e "dare noi stessi da mangiare" perché per primi siamo stati sfamati dal Signore e così, con la sua Grazia, possiamo diventare pane per gli altri. […]».

venerdì 7 febbraio 2014

Il nostro vero essere per gli altri


5a domenica del T.O. (A)

Appunti per l'omelia

Gesù, dopo aver tratteggiato la fisionomia del discepolo con il discorso delle beatitudini (cf Mt 5,1-11), si rivolge ora ai suoi in modo diretto e con alcune immagini rapide e significative, ricordando loro ciò che sono e ciò che devono essere... per pura grazia: «Voi siete il sale della terra... voi siete la luce del mondo» (cf Mt 5, 13-16).
Da ciò possiamo dedurre la necessita della Chiesa e dell'indispensabilità dei cristiani. Anche se combattuti e perseguitati, dimenticati, irrisi, emarginati, i cristiani sono per la comunità degli uomini quello che è il sale, quello che è la luce. Il sale, come mezzo per conservare gli alimenti e preservare dalla corruzione e dalla degenerazione; ed anche come condimento che dà sapore alle vivande. Con questa immagine appare chiaro il compito dei discepoli di Gesù: sono quelli che col Vangelo annunziato e vissuto salvano la società dalla degenerazione, dall'andare in frantumi, quasi anticorpi contro la decomposizione sociale. Sono, poi, coloro che in ogni situazione portano il gusto di vivere, aiutano a riscoprire il significato dell'esistenza, danno un sapore e senso nuovo al cammino spesso monotono e sfiduciato che gli uomini stanno facendo.
Affermazioni che ci mettono i brividi per la nostra inadeguatezza e le vertigini per quanto Dio progetta per noi, nonostante i nostri tradimenti.
«Voi siete la luce del mondo». Noi moderni, che viviamo nell'età della tecnica avanzata, forse avvertiamo meno il valore e la necessità della luce, come raramente conosciamo il disagio e il terrore del buio. Ma gli uomini antichi sapevano bene cosa volesse dire trovarsi al buio: quando sopraggiunge il buio, tutto si blocca, la vita in qualche modo si paralizza, non sai più dove andare. Prende senso allora l'immagine di Gesù: il mondo è immerso nel buio, gli uomini sono disorientati, brancolano a tastoni e stentano a comprendere l'enigma della loro esistenza, del loro destino, della storia. È come se avessero smarrito il senso della propria identità, con il conseguente senso di angoscia ed il pessimismo diffuso. Così, in questo mondo avvolto dal buio, una luce comincia a brillare e gli uomini si riprendono dal loro smarrimento: questa luce sono i cristiani, è la Chiesa. Anzi, più precisamente Gesù non parla di "una" luce, ma afferma che i discepoli sono "la luce". E ciò perché è Lui stesso la "luce" (cf Gv 8,12; 1,4-9). I cristiani, infatti, non brillano di luce propria, ma è Cristo Luce che risplende in loro e attraverso di loro, quale «città che sta sopra un monte», quale «lampada che fa luce a tutti quelli che sono nella casa».
È veramente immensa la dignità dei cristiani! Ma al dono è strettamente legato l'impegno e la responsabilità, perché se i cristiani non svolgono nei confronti della comunità degli uomini la loro funzione specifica di essere sale e luce, significa che hanno perduto la loro identità, «a null'altro servono che ad essere gettati via e calpestati dalla gente». Come se il sale diventasse "insipido"; come se la luce, invece che brillare e bruciare, fosse spenta o ridotta a lucignolo fumigante.
Ma l'impegno dei cristiani va ancora più oltre: compiendo le loro «opere buone» con gesti concreti d'amore verso i fratelli in necessità, il popolo di Dio brillerà come luce davanti alle genti che riconosceranno la presenza del Signore (cf Is 58,7-10), portando il cuore degli uomini a «glorificare il Padre».
Questa è la missione che tutti i credenti in Cristo sono chiamati ad attuare, anche quelli che non fossero in grado di portare un annuncio diretto. Lo faranno con la qualità della loro vita, intessuta di opere buone, con l'adesione costante alla volontà di Dio. Opere che, appunto, risplendono, incantano e attraggono, perché in esse si manifesta qualcosa della "gloria" di Dio, qualcosa cioè di quell'amore che i cristiani ricevono dal Padre e con cui le compiono. Come ebbe a dire Madre Teresa di Calcutta: "La vostra vita grida più forte delle vostre parole".



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Vedi anche:

Parola-sintesi proposta (breve commento e una testimonianza):
Vedano le vostre opere buone (Mt 5,16)
(vai al testo) - (pdf, formato A5/A4c)


Commenti alla Parola:
  di Gianni Cavagnoli (VP 2014)
  di Marinella Perroni (VP 2011)
  di Enzo Bianchi


martedì 4 febbraio 2014

Il colloquio del Figlio col Padre


Un articolo di Luca Bassetti, pubblicato su Il diaconato in Italia n. 180 e riguardante la preghiera che Gesù rivolge al Padre, mi ha fatto riflettere sul nostro personale rapporto con Dio che è Padre.
Alcuni passaggi: «Gesù permane nella sua relazione con il Padre, attraverso la preghiera, e ottiene la risposta del Padre, che trova gioia in lui con un improvviso atto di trasporto, riconoscibile come autentico compiacimento, per una perfetta relazione filiale [Battesimo]».
«Tutto ciò è possibile al Figlio solo nella preghiera, quella relazione misteriosa e intima con il Padre, che coincide con lo stesso atto generativo e che perciò costituisce la vita ricevuta dal Figlio e da lui a sua volta donata nella gratitudine e nell'obbedienza al Padre [Trasfigurazione]».
«(La preghiera) si manifesta come richiesta di un'accettazione abbandonata della volontà del Padre… Nel momento supremo della sua esistenza, in cui egli decide di consegnarsi, Gesù vive un'intimità così profonda con il Padre da ottenere la forza di resistere alla tentazione e per abbandonarsi al suo volere, tanto da anticipare, nella preghiera stessa, lo spargimento del suo sangue, il dono della sua vita, ricevendo subito la rassicurazione consolante del messaggero, che gli manifesta il suo gradimento a Dio, cioè la sua conformità al modo di essere del Padre (Orto degli Ulivi]».
È impressionante come tutta la vita di Gesù sia una "esternazione" del suo rapporto filiale col Padre. La vera preghiera è proprio questo!
C'è una cosa sola da fare: non avere altri modelli che Gesù! Nella mia relazione con Dio, nella mia preghiera, cosa vale di più? Il mio pregare è un immergermi in quella dimensione soprannaturale che caratterizza la mia figliolanza divina? Il mio vivere è manifestazione di questo colloquio che lega tutte le fibre del mio essere?