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lunedì 28 febbraio 2011

Saper perdere


Ho rincontrato un vecchio amico col quale alcuni anni fa, durante un viaggio con mia moglie in Argentina, avevamo fatto un'esperienza che non si dimentica tanto facilmente. In quella occasione, l'incontro con quei diaconi d'oltre oceano e le loro famiglie è stato così determinante nella comprensione del comune ministero che ancora oggi, dopo anni, si sente la necessità di parlarne.
Ma le circostanze ci hanno portato in questi anni ad occuparci di altro, quasi avessimo accantonato quella esperienza fondante e quegli amici: quella esperienza così vitale per la comunità del diaconato sembra ora essere un ricordo, bello, ma pur sempre lontano. Un seno di tristezza ci assale, quasi la sensazione di aver perso una grande occasione, di aver perso tempo, ispirazioni, rapporti…
La reazione però di questo amico comune è stata davvero illuminante, quando ci ricordò che nulla è perso se donato per amore a Dio; e solo così, con questi tagli, la vita nasce e continua.

Mi sono venute in mente le parole del vangelo "Chi vuole salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per causa mia, la salverà" (Lc 9,24) e quanto esse comportino per la nostra vita. Così ho capito che, se non riesco a cogliere anche in questo "perdere" la mano di Dio che mi conduce col suo amore, l'avvertire questo senso di solitudine interiore prelude ad un buio dell'anima, quasi ad un imboccare una strada a fondo cieco. L'affidarmi però alla certezza che quello che vale è compiere, nel presente, la volontà di Dio, con purezza di cuore, senza attaccamenti, dà pace all'anima e la illumina.
Il poter comunicare poi ogni cosa con chi è in grado di accoglierti nel suo cuore, scopri nella luce che "perdere" evangelicamente il bene compiuto è un contributo prezioso ed essenziale alla costruzione del regno di Dio.



sabato 19 febbraio 2011

Dalla sequela alla diaconia nel sociale


L'articolo di Giovanni Chifari, dal titolo Dalla sequela alla diaconia nel sociale (Il Diaconato in Italia, n° 163), mi porta ad una dimensione della diaconia che sa "uscire dal tempio" ed essere luce e sale per una umanità assetata di dimensioni alte, cariche di quella speranza che non delude.
Ne riporterò alcuni stralci, significativi per me per il particolare servizio a cui, assieme a molti altri diaconi, sono chiamato. Il primo riferimento, pur essendo verso la fine dell'articolo, è come una sorta di chiave di letture di tutto il resto.
«I diaconi permanenti, in virtù del sacramento dell'Ordine sacro, chiamati ed eletti fra i battezzati, per divenire testimoni e formatori, evangelizzatori della cultura, poiché vivono nel mondo con il sigillo del carattere sacro, forse più dei vescovi e dei presbiteri, sono chiamati ad essere costruttori di ponti, saggi e sapienti delle cose di Dio, testimoni del legame e dell'amore fra Dio, la storia e il mondo. Essi fra cielo e terra, tenendo fisso lo sguardo su Cristo (cf. Eb 12,2) e sulle cose di lassù (cf. Col 3,1-2), possono fecondare la storia, fermentare la società, attraverso un contributo formativo, per la crescita cristiana dei battezzati, e testimoniale, con l'esempio della loro stessa vita. Essi annunciano che è il Cristo servo l'icona che meglio traduce l'identità del Cristo "Capo", testimoniando il volto chiesto ed invocato per i tre gradi dell'Ordine sacro, realmente configurati al Signore».

«Risplendere (Mt 5,16) senza apparire, dare sapore (Mt 5,13) per valorizzare, testimoniare per rinnovare, a volte "sradicare e demolire" ma specialmente "edificare e piantare" (Ger 1,10) per poi custodire e consegnare a Dio nella carità, ecco un'eredità che il cristiano ed i ministri ordinati, ricevono dalla Scrittura, alimentano nell'Eucarestia, sperimentano nella fraternità, rinsaldati dalla memoria di quanti ci hanno preceduti nel cammino di santità aperti alla profezia di Dio per l'oggi dell'uomo.
Essere discepoli di Cristo oggi come al tempo dei primi cristiani, è segno che da visibilità ad una presenza chiamata a far fermentare nel mondo il seme di Cristo, narrando "le cose dello Spirito di Dio" (1Cor 2,14) non con parole sublimi e persuasive, ma attraverso quella parola della croce (1Cor 1,18), apparente stoltezza che confonde i sapienti, debolezza rivestita di potenza e sapienza di Dio, vanto nel Signore (1Cor 1,31) che riduce al nulla le cose che sono (1Cor 1,28)».

«Vivere da risorti con Cristo, significa vivere le proprie occupazioni, il lavoro, la famiglia, il ministero, con lo stile del Risorto. (…) Vivere nel mondo sociale e pensare ad una prospettiva operativa in ambito politico, è allora, più che una sfida o una missione, una diaconia. È, vale a dire, lo stile "naturale" di chi, avendo incontrato Cristo, ne diviene "amico" e strumento, banditore che annuncia e media la sua volontà di salvezza, pace e redenzione».

«Una diaconia se intende mediare l'incontro con Cristo, annunciare la novità della sua resurrezione, servire il prossimo nella carità, deve scaturire dal discepolato, dalla sequela di Cristo. Che significa, infatti, servire Gesù (cf. Mc 1,23.31; 15,41)? Quale dialettica fra servizio e sequela (cf. Gv 12,26)?
Bere il suo calice, ricevere il suo battesimo (cf. Mc 10,39-40) richiama una sequela che nel servizio, condivide e partecipa alla stessa passione redentrice di Gesù, è questa la Gloria di chi intende servire, di chi si pone in ascolto delle Sue parole, per quel morire a se stessi, rinnegare la propria vita (cf. Mt 16,24), in quel martirio spirituale, onorato dal Padre. (…)
In Cristo, svolgere un servizio e dare la vita, è un tutt'uno con la salvezza e la redenzione dell'uomo e del mondo, mentre nel cristiano significa accogliere la conversione come processo di conformazione ed assimilazione (cf. Gv 13,14-17)».

«Una diaconia politica, che sgorga dalla diaconia di Cristo, riuscendo a coniugare servizio e sequela, conversione e vita, vivrà il servizio al prossimo nella carità nella consapevolezza di chi sa di essere strumento inutile (cf. Lc 17,5-10) attraverso il quale Dio continua a fecondare le pieghe della storia».

domenica 13 febbraio 2011

L'amore che si abbassa


Sono rimasto profondamente colpito da uno scritto di Riccardo di San Vittore - mistico dell'inizio del secondo millennio -, che un amico mi ha fatto conoscere (e che cercherò di riportare): I quattro gradi della violenta carità, nella quale si descrive il cammino del mistico.
Lì ho trovato una grandissima affinità con la spiritualità che anima ogni diaconia, ed in special modo quella ordinata, dove si incarna il genuino amore di Dio.

I primi tre gradi sono quelli classici. Nel primo grado l'anima ritorna a sé, riceve le visite assidue del promesso sposo e sale fino a sé. Nel secondo oltrepassa se stessa, sale a Dio ed è condotta nella sua casa. Nel terzo passa in Dio, si unisce a lui e si modella nella luce di Dio.
Il quarto grado (ma si può andare oltre al terzo, cioè oltre l'unione con Dio, se non c'è niente oltre Dio?), il quarto grado, allora, non sale… ma scende, è la Caritas deficiens, l'amore che si abbassa!
L'esperienza dell'amore di Dio, spiega Riccardo, ha reso l'anima talmente ardente, che adesso essa si comporta come un metallo fuso: «Come il metallo fuso scende giù con corsa inarrestabile dovunque gli si apre una via, così l'anima si umilia alla totale obbedienza e con gioia accetta il sacrificio di sé correndo incontro a Dio nel modo che a Lui piace».
L'anima così fa proprio l'amore e la compassione di Dio per l'umanità e, dimentica di sé e delle gioie dell'unione mistica con Dio, si dedica tutta al servizio dei fratelli. Se nel terzo grado l'anima, innalzata a Dio, trapassa tutta in lui, nel quarto «lascia l'intimità di Dio e scende al di sotto di se stessa», «esce spinta dalla compassione»: l'anima «diventa madre di vita».
Ripercorre così la strada di Cristo che, pur essendo di natura divina, annientò se stesso venendo incontro all'uomo per dare a lui la propria vita. A Cristo, continua Riccardo, «deve uniformarsi chi vuole attingere il grado superiore della carità, se è vero che non c'è amore più grande che dare la vita per i propri amici».
Arrivare al grado supremo della carità può significare essere maledetto, fino ad essere separato da Cristo per amore dei fratelli. «Chi sale a questo grado di carità – continua Riccardo – attinge una tale virtù d'amore che può dire con assoluta verità: Mi sono fatto tutto a tutti per fare tutti salvi. Persino vorrebbe essere maledetto lui stesso dal Cristo per amore dei fratelli. È pazzia d'amore, che non sa mantenere nella passione la giusta misura».

Il vero mistico è colui che, diventato Dio, agisce come Dio che ama l'umanità, e corre verso l'umanità.


martedì 8 febbraio 2011

Essere sale, essere luce


Ho chiuso, in questo blog, l'articolo di domenica 6 febbraio scorso con queste parole: «Essere sale cha dà sapore e luce che dipana le tenebre: animazione di quella diaconia che fa dei cristiani "anima del mondo"!», come l'imperativo per ogni diaconia (ed in primo luogo per quella ordinata) ad essere testimoni della novità e della fecondità dell'evangelo, "fuori dal tempio", in mezzo alla gente, accanto ad ogni prossimo che mi sfiora nel presente.
È far eco alle parole del vangelo di domenica scorsa ed essere presenza viva in questa società così ammorbata.
Riporto alcuni stralci del commento di Marinella Perone (già pubblicato nel mio sito di testi e documenti) per la sua attualità.

«Non si può pretendere di diventare sale, oppure credersi luce da soli: si può solo accettare di esserlo oppure rifiutarlo. Ciò significa allora che, prima che un dovere etico, essere sale e luce appartiene alla gratuità del dono ricevuto. Come Israele non ha scelto di essere popolo di Dio, così i discepoli non hanno scelto di essere sale della terra. Lo sono e basta. Questo non diminuisce la responsabilità nei confronti del dono ricevuto, ma la connota in termini profetici come affermazione non di sé, ma della giustizia divina. Può sembrare ovvio, forse, ma non lo è tanto, visto che proprio intorno al rapporto fede-opere i cristiani sono stati capaci di spaccare in due l'intero mondo occidentale».

«La questione della visibilità dell'impegno nel mondo da parte dei discepoli di Gesù è, d'altra parte, un problema scottante e perennemente aperto. La faticosa quanto complessa storia delle nostre Chiese ce lo dimostra almeno quanto il confronto attuale sui nuovi modi possibili di "essere nel mondo senza essere del mondo". Non sempre, infatti, le opere buone sono "trasparenti", lasciano cioè vedere il volto del Padre che è nei cieli. Eppure, le Chiese hanno attraversato la storia e hanno consentito che le tracce di Gesù di Nazaret e del suo messaggio nonché l'annuncio della sua morte e della sua risurrezione superassero i secoli proprio grazie a coloro che non hanno reso il sale della testimonianza insipido».

«Essere sale della terra e luce del mondo non significa garantirsi un biglietto individuale di ingresso per il paradiso. Significa far luce a tutti quelli che sono nella casa. Nell'anno delle celebrazioni per la conquista dell'unità nazionale sarebbe forse troppo chiedere a un Paese che spesso si vanta di essere cattolico di interrogarsi su quanto, per dirla con Isaia, lottiamo contro l'oppressione o su quanto il nostro parlare, tanto pubblico che privato, sia empio? O di domandarsi se è davvero per colpa della secolarizzazione che gli uomini non rendono gloria al Padre che è nei cieli e non, piuttosto, perché non vedono le nostre opere buone? Nel suo inquietante realismo, l'immagine del sale che viene calpestato perché ha perso la sua funzione colpisce nel segno: se la minestra è scipita, non è certo colpa della minestra».


domenica 6 febbraio 2011

Spiritualità e diaconia politica


Ho riportato nel mio sito di testi e documenti, nella sezione Diaconato, l'articolo di Giuseppe Bellia, dal titolo Spiritualità e diaconia politica (Il Diaconato in Italia, n° 163).
Ne trascriverò qui alcuni stralci, spunti per una riflessione, che mi pare assai importante per chi è chiamato ad esprimere un servizio qualificato nella comunità.

«La spiritualità è frutto dello Spirito e si dispiega nel vissuto delle persone e nella storia del mondo, assecondando il duplice movimento della memoria e della profezia, del ricordo e dell'attesa verso la conoscenza piena dell'amore di quel Dio che non si impone al nostro cuore con l'evidenza della sua onnipotenza, ma si degna di venire a noi con l'inevidenza discreta della parola, dell'eucaristia, dei poveri in cui si nasconde. La spiritualità del discepolo è quindi docilità all'ascolto, custodia fedele del cuore, prontezza di obbedienza nella sequela che si traduce, quasi da se stessa senza ricercare chissà quali mezzi (vedi Mc 4,26-29), nella vita, nella storia, in una novità di relazione con Dio e con il prossimo».

Nel particolare, l'autore dell'articolo, cita la testimonianza di Sturzo, Lazzati, La Pira e Dossetti, quale testimonianza di "carità politica" dei nostri tempi.

«La partecipazione alla vita politica è stata incoraggiata come servizio al prossimo, come esemplare esercizio di carità cristiana. Come non ricordare oggi le parole di don Luigi Sturzo: "È necessario creare o ricreare l'atmosfera della moralità cristiana nella vita pubblica e questo non può essere fatto che dai veri cristiani. Se questi, invece di cooperare, si tengono in disparte per paura della politica allora partecipano direttamente o indirettamente alla corruzione della vita pubblica, mancano negativamente o positivamente al loro dovere di carità, e in certi casi di giustizia".
Giuseppe Dossetti, commemorando quella sentinella profetica che è stata per la cristianità italiana la figura di Lazzati, aveva ricordato che l'impegno politico dei cattolici non poteva essere altro che un modo precipuo e personalizzato di servizio dettato da un instancabile spirito di conversione (cf. Is 21,11-12). Senza del quale i cattolici impegnati in politica non possono adempiere il loro compito proprio di riordinare le realtà temporali in modo conforme all'evangelo, esposti come sono al ricatto di uno sterile spirito di vanagloria che ricerca il proprio interesse e non il bene comune. (…).
Quale allora la cura, quale la disciplina per conciliare sequela e impegno politico? La risposta è netta e discriminante: una prima condizione è che non si dà una vocazione alla politica, non c'è una missione a fare, nessuno è "chiamato" a comandare; la seconda condizione è la gratuità del servizio, la non professionalità dell'impegno. Sentirsi chiamati a dirigere più che un manco di modestia è una menzogna che serve a giustificare la sete di potere; allo stesso modo, dove incomincia una professionalità dell'impegno cessa anche la parvenza di una missione e la possibilità stessa di un fare creativo. Allora diventano possibili tutte le degenerazioni. (…).
La "differenza" cristiana non consiste nell'affermare sugli altri una propria, presunta, superiorità etica, spirituale o culturale, per difendere e giustificare l'esercizio del proprio potere; ma nel riaffermare la verità di Dio "dal punto più basso" (Sal 130,1), cioè dall'estremo stato di abbassamento e di svuotamento raggiunto dal Figlio in quella condizione di obbedienza del servo crocifisso, contemplata dalla primissima fede cristiana (vedi l'inno prepaolino di Fil 2,6-11). Servire gli ultimi da ultimo e i fratelli da fratello è la condizione necessaria che permette la mediazione di una vera diaconia politica che, non operando per rivalità o per vanagloria, mira a edificare la fraternità cercando non l'interesse proprio, ma quello degli altri che poi non è altra cosa che avere gli stessi sentimenti di Cristo Gesù (cf. Fil 2,3-5).
Questa eccezionale lezione profetica, questa esemplare eredità di sapienza, questa mirabile opera di diaconia politica, oggi, da chi è stata raccolta?».

E il richiamo alla diaconia ordinata è quanto mai opportuno, riferendolo alla testimonianza di La Pira, il "sindaco santo":
«A questa singolare e benedetta opera di mediazione che annuncia la speranza si deve appassionare il ministero ordinato e la testimonianza dei cristiani.
I diaconi in particolare, come "ministri della soglia" che mettono in contatto il dentro e il fuori della Chiesa, collegandola al mondo, unendo vicini e lontani, avrebbero molto da apprendere…».
Essere sale cha dà sapore e luce che dipana le tenebre: animazione di quella diaconia che fa dei cristiani "anima del mondo"!