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martedì 8 febbraio 2011

Essere sale, essere luce


Ho chiuso, in questo blog, l'articolo di domenica 6 febbraio scorso con queste parole: «Essere sale cha dà sapore e luce che dipana le tenebre: animazione di quella diaconia che fa dei cristiani "anima del mondo"!», come l'imperativo per ogni diaconia (ed in primo luogo per quella ordinata) ad essere testimoni della novità e della fecondità dell'evangelo, "fuori dal tempio", in mezzo alla gente, accanto ad ogni prossimo che mi sfiora nel presente.
È far eco alle parole del vangelo di domenica scorsa ed essere presenza viva in questa società così ammorbata.
Riporto alcuni stralci del commento di Marinella Perone (già pubblicato nel mio sito di testi e documenti) per la sua attualità.

«Non si può pretendere di diventare sale, oppure credersi luce da soli: si può solo accettare di esserlo oppure rifiutarlo. Ciò significa allora che, prima che un dovere etico, essere sale e luce appartiene alla gratuità del dono ricevuto. Come Israele non ha scelto di essere popolo di Dio, così i discepoli non hanno scelto di essere sale della terra. Lo sono e basta. Questo non diminuisce la responsabilità nei confronti del dono ricevuto, ma la connota in termini profetici come affermazione non di sé, ma della giustizia divina. Può sembrare ovvio, forse, ma non lo è tanto, visto che proprio intorno al rapporto fede-opere i cristiani sono stati capaci di spaccare in due l'intero mondo occidentale».

«La questione della visibilità dell'impegno nel mondo da parte dei discepoli di Gesù è, d'altra parte, un problema scottante e perennemente aperto. La faticosa quanto complessa storia delle nostre Chiese ce lo dimostra almeno quanto il confronto attuale sui nuovi modi possibili di "essere nel mondo senza essere del mondo". Non sempre, infatti, le opere buone sono "trasparenti", lasciano cioè vedere il volto del Padre che è nei cieli. Eppure, le Chiese hanno attraversato la storia e hanno consentito che le tracce di Gesù di Nazaret e del suo messaggio nonché l'annuncio della sua morte e della sua risurrezione superassero i secoli proprio grazie a coloro che non hanno reso il sale della testimonianza insipido».

«Essere sale della terra e luce del mondo non significa garantirsi un biglietto individuale di ingresso per il paradiso. Significa far luce a tutti quelli che sono nella casa. Nell'anno delle celebrazioni per la conquista dell'unità nazionale sarebbe forse troppo chiedere a un Paese che spesso si vanta di essere cattolico di interrogarsi su quanto, per dirla con Isaia, lottiamo contro l'oppressione o su quanto il nostro parlare, tanto pubblico che privato, sia empio? O di domandarsi se è davvero per colpa della secolarizzazione che gli uomini non rendono gloria al Padre che è nei cieli e non, piuttosto, perché non vedono le nostre opere buone? Nel suo inquietante realismo, l'immagine del sale che viene calpestato perché ha perso la sua funzione colpisce nel segno: se la minestra è scipita, non è certo colpa della minestra».


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